Una risata ci seppellirà
Una cometa punta verso la Terra e preannuncia un inevitabile impatto. Non avevo bisogno di altro a tre giorni dal Natale. Un film catastrofico è la bottiglia di spumante che apre col botto festività in salsa Covid.
Al timone Adam McKay, regista di commedie ma anche dei magnifici The Big Short e Vice; in copertina Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Cate Blanchett: mainstream garantito. Non vedo mezze tinte, potrebbe essere un filmone o una cagata pazzesca.
Una dottoranda scopre l’esistenza di una cometa che punta dritta verso la Terra, comunica la notizia al suo insegnante. Tempo stimato per l’impatto: sei mesi. Il governo statunitense, che inizialmente pare non dare credito agli scienziati, affida a un visionario sviluppatore di tecnologie futuristiche il compito di evitare la catastrofe.
Dopo dieci minuti di film affiora un ricordo sbiadito, dopo mezz’ora la sceneggiatura mi tira una rima, dopo un’ora me ne tira due, tre, mi illumino.
Blocco tutto. Digito sul motore di ricerca Netflix Salvation: un laureando scopre l’esistenza di un asteroide che punta dritto verso la Terra, comunica la notizia al suo insegnante. Tempo stimato per l’impatto: 180 giorni. Il governo statunitense si affida a un visionario creatore e sviluppatore di tecnologie futuristiche per evitare la catastrofe.
Non è un remake, Salvation è stata una serie per nulla indimenticabile uscita in due stagioni da 13 episodi l’una tra il 2017 e il 2018, figlia di Deep Impact e Armageddon (che nel 1998 preannunciavano la fine dei tempi nell’anno 2000, rinviata poi al 2012, rinviata poi a data da definirsi), pellicole che a loro volta erano figlie di Meteor, film che nel ’79 sugellava un’epoca di catastrofi cinematografiche. Don’t Look Up scippa sicuramente lo spunto introduttivo a Salvation per poi deviare verso una semantica che tradisce consapevolmente alcune delle simbologie e funzioni del genere, fino ai confini del demenziale, tanto da chiederci se non ci sia a dirigere David Zucker (solo perché Mel Brooks ormai fa solo il doppiatore di film d’animazione).
Invece no, ed è un peccato, perché McKay, le cui buone intenzioni non mettiamo in dubbio, deraglia presto in una rappresentazione che perde la grammatica della commedia satirica, preoccupandosi troppo di dichiarare sotto tracce “impegnate”, come a dire che l’ennesima variazione sul tema della fine del mondo non è l’ennesima variazione sul tema della fine del mondo perché il registro è un altro ed è al servizio di una tesi precisa:
Questa Fine del Mondo potrebbe essere inevitabile perché è accelerata dall’umana idiozia, dalla perdita di ogni istinto di sopravvivenza a favore dell’edonismo effimero, dell’opportunismo politico senza progettualità e che giustifica la confidenza delle istituzioni con la desolante società palliativa, così come la definisce il filosofo Byung-chul Han nell’illuminante saggio La società senza dolore (Einaudi, 2021), ovvero la società algofobica che rifugge il dolore con un’anestesia permanente non solo farmacologica, se è vero che nello sforzo inutile di respingere la morte come possibilità fino a trasformarla in un accidente fuori dall’ordinario, lo strumento diventa la ricerca del piacere. Il piacere come risposta al dolore si fa in quest’ottica copione delle narrazioni contemporanee transmediali e Don’t Look Up in questo centra appieno l’obiettivo, poiché ci scaraventa nel circolo sudicio di feedback tra politica, organi di informazione e popolo della rete, dove ogni soggetto cerca di compiacere e autocompiacersi per godere. Che sia l’affermazione del potere (la trovata più bella del film è il Generale che fa pagare delle patatine solitamente offerte agli scienziati ospiti alla Casa Bianca) o il raggiungimento dell’indice di gradimento (i telegiornalisti che semplificano l’emergenza, il numero dei like seguiti alla pubblicazione degli sberleffi alla giovane scienziata), chi ne gode tende con il proprio comportamento a preservare il piacere, a prolungarlo, dunque ad eliminare dall’orizzonte la possibilità del dolore e della fine. Il film ci consegnerebbe un ritratto amaro del nostro presente, dove tutto, ma proprio tutto è reificato per essere venduto, anche la fine del mondo, magari moltiplicata sul modello delle serigrafie di Warhol, fino a svuotarne la portata.
Emblema ne è Peter Isherwell (Mark Rylance) genio inventore a metà tra Elon Musk e Bill Gates, che inventa e presenta ad un pubblico in delirio l’App Bush Liif “la vita senza lo stress di vivere”. Il guru dal volto impalato dall’assenza di emozioni, come Yul Brynner in Il mondo dei robot, si specchia narcisisticamente nella massa indistinta di individui adoranti che controlla attraverso la tecnologia; la massa gode nell’essere parte di una rete che promette protagonismo e invece incasella in database, riducendo l’unicità alla forma astratta di un algoritmo.
E’ un film che tenta di riflettere sull’esercizio del potere Don’t Look Up, sul Sesto Potere, poiché dopo la stampa (Orson Welles) e la televisione (Sidney Lumet) si riverbera adesso sulla rete e dalla rete è condizionato.
Ritorniamo alla triade costituita da politica, informazione e pubblico.
Non è la notizia corroborata dall’astrofisica dei numeri di una più che probabile catastrofe sul nostro pianeta a impattare sull’opinione pubblica, ma, in un’ottica di brevissimo termine e nel regno del qui&ora, ciò che fa spettacolo è la satira facile, lo sberleffo, la ridicolizzazione della scienza che per l’ennesima volta grida alla fine del mondo, non bastassero gli allarmismi per i cambiamenti climatici o le presunte pandemie. Per il panico, previsto pure da un copione consolidato, c’è tempo. La presidentessa americana con il suo entourage sono i personaggi più funzionali di questa farsa, di più, di questo approccio demenziale alla realtà (dal figlio dispettoso, al genio Isherwell), qualcuno ha parlato anche di grottesco. In parte è vero, ma per essere grotteschi la deformazione della realtà dovrebbe trovare congruenze nelle maglie della trama che invece si sfilaccia creando microuniversi personali dove le leggi del racconto sono quelle della commedia pura, poi del dramma, del melò, dello spy movie, del fantasy e, addirittura del documentario (con gli inserti naturalistici di piante e animali indifferenti ai destini umani ma sicure vittime).
Ripensando a Mel Brooks, non c’era comportamento surreale o demenziale dei suoi personaggi che non seguissero una logica precisa all’interno di quei mondi sgangherati e parodistici. La Streep può essere la parodia di Trump che suggerisce di bere amuchina come antidoto al Covid, ma se inserita in una traccia che non mi ponga mai dei dubbi, che mi faccia ridere senza che cali ciò che si definisce sospensione dell’incredulità. Allora quel potere esercitato in maniera demente in un mondo clownesco raggela il sangue nelle vene, trasforma la risata in pianto disperato.
In Don’t Look Up invece la credibilità traballa troppo spesso. Per fare qualche esempio, l’autoreferenzialità americana che esclude il mondo fino quasi alla fine del film, la sopravvivenza stessa del professore e la dottoranda, sono aporie che insistono in un luogo filmico in cerca di identità, proprio perché non sa essere fedele ai propositi iniziali, perché addomestica la provocazione mettendosi a parlare una lingua senza sorprese. E nella seconda parte, quando pure la comicità perde sale, il brodo è allungato con acqua, mentre doveva abbondare l’alcol e la razionalità arrendersi definitivamente alla pulsione, il politicamente corretto eccede laddove avrebbe dovuto affondare con i suoi mostri del web (che è poi l’elemento iperrealistico del film). C’è spazio per il miele, per i buoni sentimenti, per la preghiera consolatrice, così che quando finalmente arriva la cometa e accoppa tutti, l’unica cosa che vien da pensare è: finalmente!
Il film si è sbarazzato del film.
Alessandro Leone
La verità è nelle stelle
Devo ammettere di avere sempre provato un senso di turbamento, forse anche di fastidio, di fronte alle sensibilizzazioni sociali da parte delle star, a cominciare dai vari Live Aid musicali e dalle pubblicazioni di hit modello Usa for Africa, passando per le campagne hollywoodiane contro il tabacco, l’industria farmaceutica o la fame del mondo, per non parlare del cinema indipendente alla Sundance festival, fino ad arrivare all’attuale biasimo nei confronti dei social media. Il potere che mette in discussione il potere fa sempre un po’ sorridere, non v’è alcun dubbio, e tuttavia deve indurre anche a qualche riflessione. Ricordo un’intervista a Elvis Presley dei primi anni ’70 nel corso della quale, in piena guerra del Vietnam, alla domanda «oggi ti opporresti alla chiamata al servizio militare?», il re del rock rispose: «preferisco tenere la mia opinione per me. Sono un artista, e un artista non si deve esporre». Il disorientamento cresce, perché anche Elvis ha le sue ragioni: ragioni che tutti noi, in fondo, condividiamo, in quanto riteniamo la libertà creativa di un autore assolutamente sacra, specialmente dalle pressioni politiche e dagli interessi economici. Oppure no?
A dire il vero, tutta l’arte occidentale, quantomeno fino all’Impressionismo, è arte di committenza: prima di Stato, poi religiosa, poi aristocratica, poi borghese, poi aristocratico-borghese e poi ancora borghese. Oseremmo per questa ragione dire che i ritratti di Velásquez al re di Spagna sono brutti? Brutta è la statua di Augusto Ioracato? E il Ritratto dei coniugi Arnolfini? Il Rinascimento stesso è una rivoluzione capitalistica. Quindi? La mia mente corre al mio Cinema preferito, quello degli anni ’50, a Fronte del Porto, a Quel treno chiamato desiderio, a La Valle dell’Eden, a Viva Zapata, tutte opere di profonda denuncia, e non posso fare a meno pensare a Elia Kazan e alle ombre di maccartismo che ne offuscano ancor oggi la figura. Penso a Pirandello fascista e al sublime incrocio di voci di Tristano e Isotta mentre bevono il filtro d’amore, scritto da quel pangermanista, antisemita, nazista ante litteram di Richard Wagner. Penso a Caravaggio assassino, puttaniere, beone e iracondo mentre dipinge le figure di Maria e Gesù bambino ne Il riposo durante la fuga in Egitto, con una delicatezza sconcertante che farebbe vergognare Klimt, e mi interrogo su cosa ci sia dell’autore nella sua tela. L’arte è un vero casino, e questo perché si tende sempre a dare troppa importanza agli artisti e poca all’opera in sé. Quindi? Quindi ho già sprecato 410 battiture senza dire nulla del film.
A dire il vero, potrei fermarmi qui, perché nella cacofonia dei miei pensieri, nel disturbo formale che sottende i miei ragionamenti, c’è tutto Don’t Look Up, o quantomeno in apparenza. Sì, perché nella Hollywood che deride Hollywood di Adam McKay, nel suo media che dissacra il media, nel gioco narcisistico di riflessi da lui descritto, fondato sulla democraticità dei like, in cui il soggetto si confonde con l’oggetto, il guardato con il guardante, la star con il suo stesso pubblico, l’indiano con il cowboy, c’è qualcosa che non funziona. Se da un lato, infatti, il suo film dipinge impeccabilmente l’iridescenza bizzarra di figure kitsch che pervadono i social alla ricerca di visibilità e consenso, il voyeurismo patinato di coloro i quali individuano nel ruolo altrui il proprio senso di esistere, e niente e nessuno dispone veramente di un’identità propria, al punto che vittima e carnefice finiscono per massacrarsi vicendevolmente, ben attenti a restare in favore di camera, scambiandosi di ruolo a seconda di come gira lo specchio dell’audience, dall’altro la messa in scena sembra deficitare di un ingrediente che la faccia sembrare davvero lo snuff movie che pretende di essere. C’è un non so che di snob e ruffiano in Don’t Look Up che impedisce l’emersione di un autentico pathos, anche nei momenti apparentemente più convincenti, come quando i due scienziati vengono derisi in televisione per aver osato stabilire un’oggettività del pensare all’interno di un mondo dove vero e falso sono rigidamente banditi. Tanto l’aspetto anticonformista di Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), quanto il fare impacciato del dott. Randall Mindy (Leonardo DiCaprio) tradiscono una stereotipizzazione intrinseca, che li rende quasi complici dell’ambiente che pretendono di contrastare, secondo un meccanismo subdolamente moralista, mi verrebbe da dire mimetico, che vuole relegare ancora il buono e il cattivo all’interno di un dualismo edificante. Ciò risulta ancora più evidente nel personaggio della presidentessa degli Stati Uniti d’America Janie Orlean (Meryl Streep) e nel suo entourage, le cui condotte teatralizzanti fino all’eccesso, finiscono per svuotare il grottesco del grottesco stesso, attirando su di sé tutti i mali del mondo, senza riuscire più a far ridere né a far piangere. E questo perché riso e pianto necessitano l’uno dell’altro per esistere: se elimini il primo elimini anche il secondo. Ne esce così un prodotto senza energia, a tratti persino borioso, certamente privo di quel sentimento tragico della morte che passa anche attraverso le ragioni del villain e la miseria dell’eroe. È troppo facile dare la colpa al potere per i mali del mondo, esattamente come è troppo facile non dare la colpa a nessuno. Il ritorno del dott. Mindy dalla moglie June (Melanie Lynskey) e dalla propria famiglia non è che il compimento di questo perbenismo intellettualoide e pacione dei rivoluzionari da salotto quali le star dimostrano il più delle volte di essere; di quelli che non si mettono mai davvero in discussione e pontificano dall’alto dei loro privilegi, della loro visibilità.
Don’t Look Up ha certamente il merito di ritrarre una società effimera, straordinariamente corrispondente a quella attuale, e tuttavia finisce per cadere nella medesima, compiaciuta autocelebrazione: quella delle star illuminate e impegnate, che non sanno far altro che cercare i nemici seguendo i vetusti e sicuri schemi, quando in realtà l’avversario è altrove, ben più prossimo e subdolo. L’avversario siamo noi: lo siamo ogni volta che ci facciamo duemila selfie prima di pubblicare una foto su Facebook o su Instagram, perché non riusciamo a venire bene, come desideriamo che gli altri ci vedano; ogni volta che esprimiamo un parere senza competenza, senza approfondire, perché leggere costa tempo e fatica; ogni volta che scambiamo, sul nostro post, l’emoticon col bacio a cuoricino per l’interessamento pruriginoso da parte di chi lo ha messo.
E basta con questa ipocrisia! Riconosciamo una volta per tutte le nostre miserie, e mettete un “like” a questo articolo.
Manuel Farina
Don’t Look Up
Regia: Adam McKay. Sceneggiatura: Adam McKay, David Sirota. Fotografia: Linus Sandgren. Montaggio: Hank Corwin. Musica: Nicholas Britell. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Meryl Streep, Jennifer Lawrence, Cate Blanchett, Mark Rylance, Rob Morgan, Jonah Hill, Tyler Perry, Timothée Chalamet. Origine: USA, 2021. Durata: 138′.