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SPECIALE Do Not Expect too much From The End Of The World

Film complessissimo, articolato, costruito e costantemente ripensato, come d’altronde molto del cinema rumeno, come buonissima parte della filmografia di Radu Jude. Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo, titolo che è perfetto ricalco dell’originale nonché della versione internazionale inglese, nasce e si consuma come film-mondo: ovvero un’esplosione fluviale di intuizioni, incastri e pensieri che fagocitano tutto e di tutto nella sua ardimentosa corsa di quasi tre ore.
La protagonista è in fin dei conti Bucarest, una città-mondo proprio come la pellicola, che passa dalla monumentalità del parlamento, dei quartieri di epoca tardo-comunista, al grigiore delle periferie, agli spazi suburbani, alla costante e incessante mutazione delle sue planimetrie. L’altra protagonista, la coprotagonista, è Angela, interpretata da Ilianca Manolache, volto già noto della Jude-factory e che qui, fisicamente e professionalmente, raggiunge il vertice del camaleontismo recitativo. È di una bellezza dirompente e volgare, come d’altronde la capitale della Romania, piena di contrasti, di stranezze fisiologiche che le danno un tocco di ellenistico, di spasmodico, come di qualcuno (o qualcosa) che raggiunge il suo apogeo, il massimo splendore, ma che al tempo stesso palesa la consapevolezza del tracollo. Mastica tutto il tempo la gomma, cosa che fa venire in mente, anche se nulla c’entra, i personaggi di Parthenope (2024) di Sorrentino. Lì, tutti che fumano e succhiano disperatamente una sigaretta dopo l’altra; qui invece un’attrice che, imbustata in un vestitino da sera arruffato di paillettes, rosicchia chewing gum in una compulsione insistita e onnipresente. A lei, che per mestiere collabora con un’azienda specializzata in video-produzioni, è affidato il racconto volutamente ingombrante e splendidamente fotografato (in bianco e nero) di questa capitale piena di gangli e suburre. L’automobile è la sua seconda casa, riempita dai frastorni di una playlist radiofonica all’apparenza casuale ma in verità dettagliatamente pianificata: ore ed ore di guida disperata e incessante su e giù per le strade, a raccogliere le testimonianze di cittadini rimasti invalidi a causa di incidenti sul lavoro. Lei entra nelle loro case, li ascolta e li filma con il proposito di montare uno struggente documentario di sensibilizzazione sulla sicurezza sul lavoro. Ma non lo fa con la delicatezza necessaria, cioè attraverso e per mezzo di quel virtuoso collante chiamato empatia. Il suo è piuttosto un lavoro d’ufficio, una di quelle cose che ti capitano per sbarcare il lunario; le sue spiegazioni sono concise e sbrigative, il metodo è da catena di montaggio, ogni azione incasellata nel cronoprogramma aziendale che subordina il dramma personale alle esigenze di mercato. Montiamo un diffusore luminoso sulla videocamera per accentuare il sentimento; omettiamo il cognome di una delle vittime, perché è troppo ridicolo; mettiamo loro in bocca quello che lo spettatore vuole sentirsi dire…
La ragazza vive però una seconda vita virtuale, che alimenta in ogni momento di pausa: specificamente interpreta un rozzo alter ego digitale per il suo canale TikTok (è sempre lei, ma con la testa pelata e la faccia declinata al maschile da un’applicazione del cellulare )che non lesina in oscenità verbali, parolacce, doppi sensi di triviale e compiaciutissima volgarità. Si chiama Bobita, questo mostro, come il Bob di Twin Peaks, un essere repellente che si reinventa in assillanti siparietti grotteschi che non dicono nulla ma che ci offrono un bestiario di insulti in rumeno.

Radu Jude è allora e primariamente il regista del linguaggio, un mestierante assai abile che smonta e rimonta il senso stesso del cinema, che è poi un riflesso dei molteplici piani dell’esistenza a loro volta speculari rispetto alla complessità della realtà. È un po’ la scusa per costruire del cinema-matrioska, con la contemporaneità di Bucarest e della Romania che d’improvviso, seguendo squarci cinematografici inaspettati, si contamina di un ulteriore livello interpretativo: mentre Angela girovaga per queste strade infinite, intrappolata nel traffico della conurbazione, sfogandosi soltanto per ingrassare di volgarità il proprio Doppelgaenger diTikTok, ecco che nel film, cioè dentro e attraverso il film, appaiono frammenti di una misconosciuta pellicola del 1982: Angela merge mai departe di Lucian Bratu, cioè Angela va più lontano, con un doppio riferimento all’Angela del film di Jude, inglobata nei cerchi concentrici e danteschi del traffico e della vita, e l’Angela di questa curiosa produzione rumena, l’attrice Dorina Lazar che veste i panni di una taxista nella Bucarest dei primi anni Ottanta: per intenderci, quella in cui il dittatore Ceausescu non aveva ancora abbattuto il quartiere Uranus per ergervi il nuovo parlamento, uno ziggurat socialista capace di ripensare interamente l’identità e lo skyline della metropoli. Bratu è regista di origine ebraica, nato nel 1924 e deceduto nel 1998 proprio a Bucarest, con una carriera cinematografica compresa tra il 1959 e il 1985, e di cui questo Angela merge mai departe risulta terzultimo lungometraggio. L’Angela del film (quello di Jude) intervista un’anziana taxista e il di lei marito. Sono Dorina Lazar e László Miske, protagonisti di Angela merge mai departe, che raccontano la propria vita seguendo esattamente gli episodi raccontati dalla sceneggiatura del film di Bratu. Metacinema? Cinema che diventa vita che a sua volta è palese finzione e decostruzione di una ulteriore finzione? Ecco, Non aspettarti troppo dalla fine del mondo si amplifica, si allunga, si deforma e si riforma, aprendosi a tanti altri spiragli: a un certo punto Angela si ritrova sul set di un film fantascientifico e il regista è Uwe Boll nella parte di se stesso. Il nuovo incontra l’antico, il passato si riscrive in un presente senza futuro, e sembra di assistere a un serpentiforme nastro di Moebius dove lo spazio urbano è riflesso dello spazio mentale che a sua volta è specchio del cinema. Con i suoi alti e i suoi bassi, il melodramma e la black comedy, i generi più degeneri e improvvisi voli sulle vette dell’autorialità.

Marco Marchetti

Quasi alla fine del mondo…

Chi scrive non è solo appassionato di cinema, ma anche interessato al linguaggio e ai meccanismi che i nuovi social propongono ai loro utenti. Naturalmente il più in vista è TikTok: un social magmatico in cui immagini scorrono infinite una dietro l’altra, potenzialmente per sempre. Il social cinese ha fatto scuola e oggi anche altri colossi hanno copiato il format dei video brevissimi uno dietro l’altro, tanto che ormai tutti ne abbiamo a che fare. Ecco, la riflessione sui social, sugli alter ego, sull’autorappresentazione è trattata in modo estremamente lucido e preciso da Radu Jude nel suo Do Not Expect too much From The End Of The World. Opera bizzarra e libera, arrivata in Italia un anno in ritardo e dopo aver vinto il Premio della Giuria al Festival di Locarno del 2023.
Una pellicola dirompente, una commedia nera capace di fotografare con grande precisione le sensazioni e le motivazioni che rendono il mondo che ci siamo costruiti come difficile e ripugnante. Una commedia, appunto: perché nonostante una durata importante (circa 160 minuti) il film scorre via con grande ritmo e intelligenza, regalando tanti sorrisi amari e dialoghi taglienti. L’intero film è permeato da un senso di disperazione cronica, ma la grande riflessione è che ormai siamo così succubi e inglobati dal nostro sistema di vita che accettiamo qualsiasi ingiustizia e nefandezza: la complessità e il dolore vengono ridotti a video girati in pochi minuti con un telefonino. Una situazione così straniante da sembrare comica. In tutto questo, la forma è geniale ed estremamente originale: la storia che ci viene raccontata viene intervallata con le immagini di un film del 1981, intitolato Angela merge mai departe, che narra la storia di una tassista a Bucarest.
Do Not Expect too much From The End Of The World è quindi un grande esperimento in cui convivono Uwe Boll (in persona!), alter ego sui social creati più per disperazione che per divertimento e continue citazioni filosofiche o cinematografiche. Quello che ne esce è un’esperienza unica, ed è interessante come alcuni dei film migliori dell’anno sono quelli che riflettono proprio sul senso stesso delle immagini: pensiamo a La zona d’interesse o The Substance.
Il titolo è apocalittico e il film sembra proprio essere ambientato alla fine del mondo. Più precisamente, alla fine del mondo della società dell’immagine. In ogni caso, come ci suggerisce la mezz’ora finale, sembra ormai troppo tardi per rimediare.

Andrea Porta

…senti anche tu odore di marcio?

Non aspettarti troppo dalla fine del mondo, potrebbe deluderti. L’apocalisse di Radu Jude non ha nulla di spettacolare, mette in scena invece il ventre putrefatto d’Europa, e l’odore, di marcio, pare fuoriuscire da ogni sordida inquadratura di quest’opera fluviale e fuori canone.
Eppure se dovessi giocarmi le mie ultime 24 ore prima della fine del mondo, sceglierei di passarle nell’abitacolo dell’auto di Angela, a caccia di vivi tra le strade senza colore di una Bucarest nevrotica e disumanizzata. Sarebbero 24 ore ben spese, le ultime, a un metro da Angela e dal suo corpo cinematografico magnetico. Angela come l’ultimo film del mondo, che guarda con disprezzo la volgarità della sua città che prende colore solo quando si filma, in brevi pause di lavoro, per registrare e caricare su TikTok, nelle vesti del suo triviale alter-ego Bobito, improperi altrettanto volgari contro tutto e tutti per sfanculare la vita stessa, deludente come la fine.
Radu Jude scommette sulla sua attrice, che potrebbe essere un personaggio respingente in qualsiasi altro film e, invece, qui ti tiene ancorato a ciò che rimane di vitale tra le macerie. Si ha la sensazione che Angela e pochi altri siano superstiti di una epidemia non meglio identificata, come in un film di Romero. E in questa desolazione bisogna andare indietro nella storia del 900 europeo e nella storia del cinema, per scovare tracce di colore, e pescare un’altra Angela, un altro doppio della protagonista, in Angela merge mai departe di Lucian Bratu, scrostato dagli scantinati di una cineteca rumena. Angela merge mai departe in Do Not Expect too much From The End Of The World sembra un incidente ottico, uno scontro fortuito tra due oggetti filmici che solo a metà si scoprono appartenere uno all’altro, quando l’anziana Angela (Dorina Lazar), la tassista del film di Bratu, incontra la giovane Angela che cerca storie di infortuni sul lavoro per i suoi capi produttori cine-televisivi: abbandonate da tempo le strade e il suo taxi, sopravvive dopo quarant’anni con il marito conosciuto nell’abitacolo della sua vettura. E’ imbolsita, cammina con un bastone, ha sconfinato dal sogno verso l’incubo, il cui capolinea sembra il film di Radu Jude. Il regista, per interposta Angela, convoca l’anziana donna e ne risolve la parabola, mettendone involontariamente in scena l’atto finale, in un inaspettato piano sequenza di quaranta minuti con macchina da presa immobile – di cui non riveliamo nulla – che chiude il film e lo eleva a capolavoro: l’ennesimo racconto nel racconto che amplifica, se ancora ce ne fosse bisogno, la sensazione di aver assistito a un disgustoso processo di putrefazione di un corpo (sociale) maltrattato fino alla morte e anche dopo, mentre tutto intorno il mondo collassa banalmente, senza spettacolo.

Alessandro Leone

Do Not Expect too much From The End Of The World
Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo

Regia e sceneggiatura: Radu Jude. Fotografia: Marius Panduru. Montaggio: Catalin Cristutiu. Interpreti: Ilinca Manolache, Nina Hoss, Katia Pascariu, Dorina Lazar, Sofia Nicolaescu, Ovidiu Pîrsan. Origine: Romania/Lussemburgo/Francia/Croazia, 2023. Durata:163′.

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