Film audacissimo che, visto e consumato diversi giorni addietro, ancora macera nel subcosciente in mille mutazioni critiche, sfrangiandosi e frazionandosi in idee, percezioni, intuizioni tutte interessanti ma nessuna davvero risolutiva. Questo lo si dice perché Crimes of the Future, non-remake dell’omonimo film del 1970, è più che un film un’esperienza, una piattaforma concettuale che agglomera e conglomera cose altre e tra loro diversissime.
Siamo nel futuro, o forse no. Siamo in un retro-futuro, uno spazio di pura e intellettiva plausibilità dove tutto è vecchio e cade a pezzi. Ci sono scritte in greco che appaiono per vicoletti sporchi, palazzi fatiscenti da periferia mediterranea olezzanti umidore e scoramento, una notte bruna onnipresente su cui spiccano statuarie figure incappucciate: monaci improbabili, forse artisti anacoretici che vivono un rapporto assoluto con l’arte di cui sono gli altrettanto inquietanti alfieri. L’artista per eccellenza è Saul Tenser (Viggo Mortensen), un uomo irrequieto, torvo, il cui corpo, vittima compiacente di qualche misteriosa malformazione genetica, produce organi perfettamente funzionanti ma all’apparenza inutili. Organi, ghiandole e strutture morfologiche si sviluppano come surreali infiorescenze tra i suoi visceri umanissimi, spingendo e premendo tra i tessuti, negli anfratti, in ogni interstizio possibile fino a quando l’espianto non si fa obbligatorio. A rendergli il favore, cioè ad occuparsi della rimozione, è l’ex chirurga Caprice (Léa Seydoux), trasformatasi, come il cenobitico compagno, in una body performer: dinnanzi a platee adoranti di fan, l’uno si lascia aprire e sviscerare dalle futuristiche strumentazioni dell’altra, presto suturato e costretto chissà come e perché a un altrettanto prolifica gestazione di anatomie aliene. La performance è da almanacco: lui rinchiuso in un sarcofago gigeriano, tutto trapunto e trafitto da aghi e lamine, lei in orgasmica ed estatica contemplazione come in un’esperienza museale spinta alle massime conseguenze; tutt’attorno il ginepraio di seguaci in sperticanti applausi, il delirio feticistico, l’incantata ammirazione di chi, munito di antiquati mezzi di registrazione come cineprese o fotocamere digitali retrodatate, si lascia sedurre dall’estetica della violazione corporale. In questo mondo non esistono dolori né infezioni: tutto è marcio ma asettico, e quella che un tempo era la sofferenza fisica ha ormai cagionato un horror vacui tale da trovare compenso in una sessualità deviata e perversa. Tagliarsi, mutilarsi, squarciarsi vicendevolmente appare come l’ultima frontiera di un erotismo avanguardista che celebra i propri imenei non più in televisione o attraverso social network inspiegabilmente estintisi, ma nel salotto privato e sepolcrale, nell’occhio guardone e assai sofisticato di una più o meno variegata aristocrazia di golosissimi estimatori.
Il film di Cronenberg è senz’altro opera filosofica, come filosofo più che regista è il suo artefice. Se proprio dovessimo ricorrere alle definizioni manualistiche, azzarderei che siamo di fronte a una pellicola meta-testuale, visto che l’opera smonta, rimonta e riassembla secondo modelli e deduzioni alquanto composite e
libertarie l’intero circuito intellettuale del maestro canadese. Da Crash a Cosmopolis passando per Il pasto nudo, Crimes of the Future è un puzzle impazzito ma coerentissimo di visioni avveniristiche che scomodano il ripensamento dei corpi, la sociologia e la filosofia identitaria. Insomma un film “rizomatico” nel senso deleuziano del termine (Cronenberg è un ottimo conoscitore della cultura francese, leggasi il suo unico romanzo-capolavoro Divorati, parte integrante e di altissimo livello della sua riflessione): per qualche strano pregiudizio si valorizza la profondità a scapito della superficie, ignorando che proprio la superficie è in verità sinonimo di estensione dimensionale. Ed è il corpo, o meglio l’eterna e contraddittoria distensione dell’epidermide, a fungere da confine per una revisione della funzionalità sessuale e sociale.
Il suo film, così come l’intero suo corpus cinematografico, diventa costante riconsiderazione di una società ormai
risolutivamente mutante e mutevole nelle definizioni linguistiche, e soprattutto nelle strutture di equilibrio sociale. Percorrendo ogni possibile frangia estremistica di body art (l’uomo costellato di orecchie sintetiche che balla sui ritmi ipnotici della techno è un perfetto riferimento a Stelarc), Cronenberg fa da contraltare forse inconsapevole a The Square (2017): là, Ruben Östlund omaggiava il presente dell’arte per mezzo delle sue derive contemporanee e dei processi storiografici che ne giustificano tutt’ora gli indirizzi; qui si analizzano i sentieri tematici per cui, attraverso una riscrittura dell’arte e delle correnti performative, si potrà giungere addirittura a un superamento dell’essere umano.
Marco Marchetti
Dalla superficie
Gran parte del cinema di Cronenberg è una questione di superfici. Lasciata la sala dopo Crimes of the Future, mi ha quasi sconcertato l’emersione, tra tutte le tracce visive cronenberghiane sedimentate nel mio subconscio, del disgustoso schermo televisivo protagonista in Videodrome. L’ho rivisto come fosse un bisogno primario. Il vetro del televisore su cui sbava James Woods, posseduto dall’ossessione di possedere lo schermo che è già occhio e protesi del cervello umano, è una bestia seducente di luce magnetica, si fa desiderare ma al tempo stesso desidera quell’uomo spettatore, cosicché da un primo contatto di superficie – vetro/epidermide – esplode, osceno, l’amplesso contro natura e per questo spiazzante: materia metallica e plastica si mescola con la carne, il sangue, la psiche, generando un flusso di immagini che intrecciano realtà e finzione, fino ad abolirne i confini.
La superficie come confine è per il regista canadese il limite da perforare, che sia mente o derma, perché si accelerino gli stadi evolutivi in un processo che è figlio legittimo del Ventesimo secolo (figuriamoci del Ventunesimo) dove la definizione di “naturale” si è dilatata in una semantica che spazza via i vecchi significati per abbracciare tutto ciò che è artificiale. Il motivo secondo Cronenberg è che l’umano da tempo è il prodotto di una spettacolare quanto terrificante (quanto ormai irreversibile) mutazione generata dalla contaminazione tra esseri viventi e ciò che questi producono, di fatto modificando gli ecosistemi.
Crimes of the Future non è nulla di nuovo, dunque, ma semmai la logica prosecuzione di un discorso con basi filosofiche e scientifiche che ha scelto però il veicolo del cinema e della letteratura fanta-horror.
L’artista Saul Tenser è il campione tra tutti i personaggi cronenberghiani, brilla di consapevolezza per aver accettato in chiave evoluzionistica la metamorfosi del suo corpo, generatore di organi inutili ma esteticamente perfetti, espressione forse inconscia di una mente creativa che utilizza il corpo come avatar, accettando la plausibilità di un DNA alterato da fattori esterni: la plastica. Per questo Crimes of the Future pare a tratti parodiare il film di genere che abbraccia il genere per farsi metafora politica o film impegnato: in questo caso i temi legati alla proliferazione delle sostanze plastiche sul Pianeta e le conseguenze nefaste sugli esseri viventi. Ma la plastica sta a Crimes come i mondi virtuali e video ludici stavano a eXistenZ, le automobili e le lamiere a Crash, gli alieni e gli scarafaggi a Il pasto nudo, la Tv a Videodrome, e via lungo tutta la filmografia del regista. La plastica, divenuta cibo per mutanti, è semmai il pretesto per lavorare sulle suggestioni dell’alterazione degli individui attraverso cause apparentemente esterne ma che invece sono tutte interne all’uomo. I film di Cronenberg sono film di superfici lacerate da oggetti o creature che penetrano nei corpi per contaminarli, facendosi metafora delle perforazioni nel subcosciente che generano poi mostri.
La grandezza del personaggio interpretato da Mortensen è nell’aver compreso che contaminazioni e metamorfosi sono frutto di un desiderio: Tenser è un mutante che ha trasformato il terrore per il mistero, lo sconosciuto, l’invasore, in occasione di piacere, thanatos diventa eros. Con la complicità di Caprice, Tenser memore della lezione della Body Art e in generale dell’arte performativa (ricordano l’intesa tra Marina Abramović e Ulay), azzera l’orrore che provoca il pensiero di un’occupazione dall’esterno, del proprio corpo conquistato da agenti estranei e patogeni (potremmo quasi affermare che Cronenberg sia ossessionato dal cancro) per farne spettacolo, esibendosi nudo, fino a spogliarsi della superficie e mettere in mostra gli organi interni in quella che diventa esperienza estatica per la coppia di artisti e per il pubblico. Tenser e Caprice diventano pezzi unici da collezionare con gli occhi e l’organo disincarnato di Tenser il prodotto pulsante dell’arte del neocapitalismo che, distruggendo la progettualità estetica che ha sostenuto la rappresentazione figurativa fino al Diciannovesimo secolo, ha rinegoziato il valore della creazione su logiche di mercato.
Cronenberg in una fessura del film sembra far riferimento ad un possibile nuovo paradigma anche nell’arte, dove la rappresentazione del sé in un contesto claustrofobico di tendenze e contaminazioni perde i contorni identitari che lo hanno definito umano. Se non è un incubo questo.
C’è un elemento su cui ho riflettuto dopo la visione del film. Si tratta delle lacerazioni con i bisturi che non provocano fuoriuscite magmatiche di sangue. La prima ipotesi ritorna sul concetto di creatura post-umana, poiché certamente in questo arcaico domani messo in scena da Cronenberg la carne è mescolata con la plastica che ne sta cambiando la consistenza; la seconda mi arriva ancora una volta da Videodrome, così che ciò che il nostro occhio vede sullo schermo è più simile alla proiezione mentale di una mente deviata, un sogno (o un incubo), nel più carnale e al tempo stesso metafisico dei film di Cronenberg, il viaggio più sconcertante nei labirinti della psiche, nelle oscurità limbiche, dove oggetti e ambienti sono aporie in scena: nessuna indicazione di tempo, elementi anacronistici che vivono comunque in un futuro prossimo, personaggi che entrano con carica perturbante per tracciare fili narrativi che restano tronchi, deviazioni linguistiche.
Crimes of the Future si incunea nello spettatore ma te ne rendi conto solo dopo la visione, molto dopo, quando pensi che sia rimasto lì a livello epidermico, come un discorso appena abbozzato, e invece penetra con tutta la sua carica virale per sentirlo violento scorrere nelle vene, sperando che non generi altri mostri; svegliarsi e sperare di non avere demoni sotto la pelle.
Alessandro Leone
Crimes of the Future
Sceneggiatura e regia: David Cronenberg. Fotografia: Douglas Koch. Montaggio: Christopher Donaldson. Musiche: Howard Shore. Interpreti: Viggo Mortensen, Léa Seydoux, Kristen Stewart, Scott Speedman, Tanaya Beatty, Lihi Kornowski, Denise Capezza, Yorgos Karamihos, Don McKellar. Origine: Canada/GB/Grecia, 2022. Durata: 107′.