Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
Son of a Gun
Regia: Julius Avery. Sceneggiatura: Julius Avery. Fotografia: Nigel Bluck. Montaggio: Jack Hutching. Musica: Jad Kurzel. Interpreti: Ewan McGregor, Brenton Thwaites, Alicia Vikander, Jacek Koman. Origine: Australia, 2014. Durata: 109′.
Bello, frastornante, profumato. Proprio come dovrebbe essere un noir con gli attributi, uno di quei film che ti prendono alla gola pur senza la pretesa di essere dei capolavori. Il film di Julius Avery, australiano, segue il battesimo di fuoco di un imberbe diciannovenne di nome JR (Brenton Thwaites), finito in carcere per reati di poco conto, che imparerà a farsi le ossa tra detenuti pelosi come orsi e grossi come bistecche sfrigolanti. Si comincia con un tentato stupro e si prosegue a mascelle spaccate e gole squarciate con punteruoli e altri oggetti contundenti. Ewan McGregor è invece il nemico pubblico numero uno, un criminale incallito che diviene il mentore di questo ragazzino spaventato, gli insegna a cavarsela nelle circostanze più pericolose e insomma lo prende sotto la sua ala protettrice. Certo non lo fa per spirito cristiano, ma per opportunismo bello e buono: il piano è quello di usare il suo pupillo, uscito nel frattempo di galera, per organizzare un’evasione degna di una pellicola di Van Damme. JR si imbottisce di armi, dirotta un elicottero e recupera i suoi amici della prigione. Il tutto condito con alte dosi di adrenalina, sparatorie e inseguimenti. Ma non finisce qui. Ormai JR è diventato un delinquente a tutti gli effetti, uno che non devi prendere sottogamba o a cui è meglio non fare girare le palle. McGregor ha infatti un’altra idea dalla sua: raccogliere un po’ di uomini fidati, bravi a maneggiare le armi, e rapinare una miniera d’oro. Il sogno di ogni gangster che si rispetti. Peccato che qualcuno spari quando non dovrebbe, e che il mandante del colpaccio sia quel lestofante di Sam, pericoloso boss legato sentimentalmente alla fidanzata di JR. A nessuno piace dividere il malloppo con chi ti ha fregato la donna…
Avery è un mestierante dannatamente bravo, tanto più che esordiente. Scrive con intelligenza e dirige con passione i suoi personaggi da crime movie in salsa australiana, deserti, sterpaglie e paesaggi marittimi. C’è anche tanto odio, nel suo cinema, quella rabbia malsana che cresce nelle periferie, nei quartieri malfamati o nelle situazioni borderline, dove la gang diventa la tua famiglia e la rapina il tuo unico codice d’onore. L’atmosfera ricorda un po’ il conterraneo Snowtown (2011) di Justin Kurzel, stessa fotografia, stesse facce da suburra, stesse tonalità livide e crepuscolari (e non è un caso che il compositore sia sempre quello).
È infatti proprio il corpo che interessa ad Avery, la forma di questi individui senza Dio né valori letteralmente messi a nudo sotto il sole cocente d’Oceania, torsi tatuati, braccia muscolose, spalle inquartate da assassini professionisti. In una scena la femme fatale della situazione stordisce il suo aggressore sferrando colpi con il ferro da stiro, in un’altra un bellimbusto con più spigoli di un trapezio infila un complice nel freezer pur di farlo parlare. Vi siete mai chiesti come si riduce un corpo umano dopo qualche ora di permanenza in un congelatore? Guardatevi Son of a Gun e avrete le risposte che cercate. Non c’è redenzione, in questo film, McGregor è forse un attimo meno peggio di tutti gli altri biechi personaggi che incontriamo durante la proiezione, ma il senso è che se non sei tu ad arraffare, lo farà qualcun altro al posto tuo: lasciandoti in mutande, alla mercé del primo lupo disponibile. Tutto ciò che resta è allora l’avidità, il peccato per eccellenza, l’ingordigia di possedere per il gusto di possedere. E la paura, naturalmente, il terrore che ai tuoi amici si allunghino le mani e della tua valigia piena di soldi non resti più traccia.
Marco Marchetti