Uno spazio chiuso, una macchina che galleggia per le periferie bucarestine, scene di un matrimonio che si attarda tra mille litigate, rimbrotti e piccole ripicche. Colpa del marito, naturalmente, che ha comprato il costume sbagliato per la recita della figlia. Un altro spazio chiuso, un appartamento borghese, una grande tavola imbandita attorno alla quale si riunisce un’intera famiglia per commemorare la recente scomparsa del suo patriarca. Però è vietato mangiare prima che il prete conceda la ritualistica benedizione. Il sacerdote è in ritardo, ognuno si affardella ai fornelli, in salotto, nei corridoi, al bagno, qualcuno scalpita, qualcun altro si lamenta, qualcun altro ancora approfitta dell’attesa per recuperare gli immancabili scheletri dall’armadio. E c’è persino chi di aspettare il prete proprio non ne vuole sapere: la più giovane, anticlericale per moda, e la più vecchia, una comunista ortodossa che i preti se li mangia invece per fede politica. È questa la premessa (ma anche la conclusione) dell’ultimo film di Cristi Puiu, un ordinario melodramma in abito borghese che sperimenta le più strampalate alchimie famigliari nell’arco di un pranzo. La moglie nevrastenica per i tradimenti del marito, il nipote che tenta di convincere i convitati delle più fantasiose teorie cospirative; e ancora cugini, parenti, consanguinei che a vario titolo entrano ed escono dalle porte aperte, chiuse e socchiuse, dalle camere in cui ritirarsi per vomitare, urlare, abbandonarsi a estemporanee crisi isteriche, dagli spazi della casa appartati soltanto per alcuni momenti; prima che l’intimità venga violata e fiumane di altri parenti ne prendano possesso con le loro bugie, per attaccare, colpire, battere e giustificarsi nell’apoteosi del mélo. È il cinema dei cubicoli, questo di Cristi Puiu, aree ristrette come a teatro costantemente rimodellate, nelle quali serpeggiano parole dai significati inaccessibili in superficie, ma ribollenti di energia freudiana appena sotto lo strato friabile della ragione. C’è molta Romania, qui dentro, o forse c’è molto cinema rumeno, che storicamente è fatto di ellissi, non detti, resezioni, insomma tutte quelle scene morte che facevano imbestialire Hitchcock ma che per uno dell’est sono il prisma inviolato dell’esistenza umana, la contemplazione dell’Uno e del Mistero, la cosmogonia di tutte le cose che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto supponibili. Lui, Puiu, questo geniale regista che si era imposto sulla scena internazionale con La morte del signor Lazarescu (2005), aveva ribaltato i presupposti del noir con Aurora (2010), pellicola fluviale di oltre tre ore in cui si arrangiava un thriller senza il thriller, un giallo scevro di suspense, tensione, orrore in cui la violenza si palesava come una crosta sullo sfondo della narrazione anziché farsi filo conduttore dell’opera. E qui ritorna con le parole, i concetti, i pensieri espressi dall’individuo nel suo alveare, nella rete complessa delle relazioni sociali. È il grande scisma dell’uomo moderno a interessargli, lo iato tra ciò che siamo e quel che vorremmo essere, il sogno della realtà e l’oggetto mediato dall’occhio dell’altro.
Sieranevada è allora un dramma epico di 173 straordinari minuti, che condensa più di quello che i nostri sensi riuscirebbero a comprendere nella durata di una sola visione. È lo spazio siderale che nella sua messa in scena debitrice di tanto teatro resta così piccolo quasi da non vedersi, ma che tra noi, nelle frasi e nei gesti, assume le incommensurabili dimensioni dell’abisso. Il titolo, per esempio, sapete che vuol dire? Assolutamente niente. Puiu l’ha scelto a caso.
Marco Marchetti
Sieranevada
Sceneggiatura e regia: Cristi Puiu. Montaggio: Letitia Stefanescu, Ciprian Cimpoi, Iulia Muresan. Fotografia: Barbu Balasoiu. Musica: Bojan Gagic. Interpreti: Mimi Branescu, Dana Dogaru, Sorin Medeleni, Bogdan Dumitrache. Origine: Romania, 2016. Durata: 173′.