Ma non era un highlander, tra i pochi eletti destinati a vivere per sempre? Sean Connery presente anche nell’assenza, con il suo corpo magnifico anche dopo i sessanta, poi dopo i settanta, gli ottanta, quando da tempo aveva lasciato i set, consegnando il suo mito all’immaginario collettivo; Connery bello ed elegante anche a 87 anni sugli spalti del US Open, fuori dai confini della sua residenza alle Bahamas dove si era ritirato con la moglie di seconde nozze Micheline Roquebrune. Una carriera intelligente, costruita su produzioni mainstream, quanto basta, cambiando strada appena prima dello sputtanamento, fuori dal personaggio di 007 con un tempismo da manuale, interpretato comunque con classe e fascino, definendo anzi il personaggio ben prima di Moore. A ripensarci, per quei sei Bond avrebbe meritato un Oscar, se non fosse che raramente i film di genere, tanto più quel genere, finiscono tra le prime scelte dell’Academy. L’Oscar arriverà poi per il ruolo assegnato da De Palma nel capolavoro Gli Intoccabili (The Untouchables), era il 1987, un anno dopo Highlander – L’ultimo immortale e In nome della rosa, voluto da Jean-Jacques Annaud per interpretare il frate Guglielmo da Baskerville.
Dopo una giovinezza in cui si era arrangiato per sbarcare il lunario, il concorso di Mister Universo 1953 (gradino più basso del podio) lo consegna al cinema, dove lavora in produzioni Disney e poi, tra uno 007 e un altro, viene ingaggiato da Hitchcock (Marnie), Annakin (Il giorno più lungo), Ritt (I cospiratori), soprattutto da Sidney Lumet, con cui girerà ben cinque film, l’ultimo nel 1989, Sono affari di famiglia. Dopo l’intenso ruolo in Scoprendo Forrester di Van Sant, mentore dello sbarbatello Rob Brown, Connery saluterà il pubblico nel 2003 con La leggenda degli uomini straordinari, titolo che sembra tagliato su misura come quei capi di alta sartoria indossati da Bond, James Bond.
@redazione