Aveva 96 anni. Tanti per uno che sul ring ne ha date ma ne ha pure prese. Senza andare al risparmio il fighter italoamericano Jack La Motta non si era mai tirato indietro sul quadrato, soffrendo anzi quando la mafia che gironzolava appena fuori le corde, nella persona dell’eminenza grigia Frank Carbo, gli impose una umiliante combine, in cambio della chance della vita. Vita costellata da luci e ombre, che trovò l’apice con la vittoria mondiale contro Marcel Cerdan, lo sfortunatissimo amante di Edith Piaf, e nell’unico match vinto (il secondo di sei) contro il suo acerrimo rivale, l’elegante Sugar Ray Robinson, forse il più grande peso medio di tutti i tempi. 106 incontri disputati, 83 vittorie, 4 pareggi e 19 sconfitte. La più bruciante delle quali subita proprio da Sugar Ray nel 1951, il giorno di San Valentino, un incontro che ancora viene ricordato come il massacro di San Valentino, per la violenza con cui i montanti del pugile nero affondavano, round dopo round e con il pubblico che implorava pietà, nel volto del Toro, fino a sfigurarlo come La Motta aveva sfigurato Janiro, che la moglie aveva definito bello.
La vita del pugile dentro e fuori dal ring, superfluo ricordarlo, venne raccontata da Martin Scorsese e Paul Schrader (alla sceneggiatura), con De Niro a prestare corpo e viso a La Motta: infischiandosene della linearità cronologica, gli autori compongono un affresco in espressionista bianco e nero che non trascura gli inizi, la separazione dalla prima moglie e le seconde nozze con Vickie, il sodalizio con il fratello, la scalata al mondiale passando per Carbo, i match contro Robinson fino alla discesa negli inferi; elementi narrativi funzionali a esplorare via via le fragilità caratteriali dell’uomo senza guantoni, dall’accecante gelosia che spezza il legame con la moglie e il fratello, alle paranoie da eterno secondo che alimenteranno il timore di scomparire come uomo e come campione; e poi l’impulsività indomata, un mostro che si mangia la ragione da dentro e che lo fa tutto carne e sangue ribollente, animalesco.
Raging Bull (Toro scatenato, 1980) non si configura come un semplice biopic e nemmeno, a ben vedere, come un film che promette di raccontare il pugilato, ma definisce una parabola drammatica che diventa esemplare per effetto del cinema, trasformando Jack La Motta in un eroe tragico e popolare: per sempre nell’immaginario collettivo (approfondimento su Toro scatenato cliccando qui).
A. Leone