I giornali ne avevano parlato abbastanza bene, perché era stato a Venezia, sezione Orizzonti, e per di più ci recitava Pierfrancesco Favino, appositamente ingrassato di una ventina di chili per questo ruolo; e siccome gli italiani non scorgono molte differenze tra un concorso internazionale di cinema e una partita di calcio, molte penne si sono levate in difesa di Michele Alhaique, regista, più per iniziativa patriottica che per reale necessità di encomio. Peccato, perché Senza nessuna pietà cominciava abbastanza bene, con due sgherri della criminalità organizzata che fracassavano la mano a un disgraziato che non aveva i soldi per pagare il pizzo. Sembrava che in questo paese delle banane qualcuno si fosse accorto della crisi, e avesse deciso di sbarcare sul lido veneziano, dinnanzi a platee internazionali di spettatori, critici e registi, con l’idea precisa di raccontarne uno spaccato. Invece nisba, quel volpone di Alhaique approfitta della sua relativa notorietà di attore televisivo per esordire con un lungometraggio stitico, sgangherato e tiratissimo per i piedi.
La storia non è la che revisione banalizzata di un noir americano anni quaranta: Mimmo (Favino) è un muratore grande e grosso, orfano di padre e cresciuto dallo zio Santilli (un irriconoscibile Ninetto Davoli), noto usuraio della Roma palazzinara. Per questo lui e l’amico Roscio (Claudio Gioè) si occupano degli affari sporchi di famiglia, picchiare i commercianti indietro con i pagamenti, o prelevare le puttane, quelle che oggi si chiamano escort, per le feste private del cugino Manuel (Adriano Giannini, figlio di). Mimmo però non è cattivo, quello che fa lo fa per rispetto della famiglia, delle sue regole non scritte, dei cerimoniali tribali che lo hanno sempre costretto a chinare il capo e dire di sì allo zio patriarca. Ma ecco che un giorno giunge da Latina una bellissima meretrice di nome Tania (Greta Scarano), troppo bella, pulita e preziosa perché il cugino Manuel ne possa usufruire senza scatenare le gelosie di Mimmo. Insomma, il risultato è che Mimmo si innamora della puttana, la puttana lo ricambia e insieme fanno le fanno girare allo zio, che li costringe alla fuga in seguito al compimento di un terribile crimine.
Il problema è che a questo punto la sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, non segue più nessun barlume di logica, e si attorciglia in un cacciucco di motivazioni sbrindellate, sciocchezze spacciate per risvolti autoriali, sguardi e ammiccamenti che in teoria dovrebbero tirare in ballo la psicoanalisi (l’invidia tra Mimmo e Manuel, per dirne una) e invece finiscono con il non dire nulla che già non si sapeva. C’è insomma un disguido di fondo: Alhaique comincia la sua pellicola come un noir geometrico, la storia d’amore tra il poveraccio e la prostituta, il crimine e la conseguente fuga, e poi la conclude alla carlona, con personaggi che fanno di tutto tranne che preoccuparsi per le rispettive colpe. Facciamo degli esempi pratici, di modo che il lettore sappia sin da subito di che morte morire: Mimmo e Tania devono fuggire. Hanno la macchina. Ma invece preferiscono passare la giornata a fare il bagno aspettando il pullman delle cinque di pomeriggio. Che senso ha?
La logica, cioè la logica del noir classico, il canone di riferimento per Alhaique e per tutti i mestieranti che a questo canone si ispirano, è che il “delitto” imponga un “castigo”, ma che nel frattempo i responsabili del fattaccio tentino di scappare, oppure di occultare le prove sperando fino all’ultimo di farla franca. Di antieroi così scemi, che vanno al mare anziché mettere in salvo la pelle, non se ne sono mai visti, né sarebbe lecito giustificarne il pressapochismo, questo sì davvero scellerato. Ma soprattutto, com’è possibile che Tania, viziatissima, burina, attaccata ai soldi e la bella vita, d’improvviso si innamori di un muratore povero, sporco e burbero, tanto da condividerne un destino che in fin dei conti non la riguarda (non è certo lei ad aver commesso il crimine)? E ancora, perché Mimmo si ostina a tornare a casa sua per prendere i soldi ben sapendo che gli scagnozzi dello zio lo stanno aspettando per dargli una bella lezione? A questo, almeno, c’è una risposta: non ha il bancomat, i soldi che guadagna li tiene nel barattolo della credenza. Ma per favore… Si potrebbe continuare, ma è meglio fermarsi per evitare eventuali spoiler.
Senza nessuna pietà non ha pietà per lo spettatore, comincia in un modo e si sviluppa in un altro, inanella un insieme di banalità sperando di spacciarle per una geniale variazione a tema. Certo, il prodotto è ben confezionato, gli attori fanno il loro mestiere, Favino s’è pure pigliato il premio Pasinetti sul lido, ma tutto questo non basta per fare un buon film, tanto meno un buon noir.
Marco Marchetti
Senza nessuna pietà
Regia e sceneggiatura: Michele Alhaique. Fotografia: Ivan Casalgrandi. Montaggio: Tommaso Gallone. Musica: Luca Novelli, Yuksek. Interpreti: Pierfrancesco Favino, Greta Scarano, Claudio Gioè, Ninetto Davoli, Adriano Giannini. Origine: Italia, 2014. Durata: 95′.