talian gangster, Siamo a Venezia, d’accordo una platea internazionale, sale la fibrillazione per divi e dive, elettricità tra le sale, comunicati stampa che rimbalzano, le prime voci dei protagonisti, la serata inaugurale che diventa storia e nella storia del festival lascia una frase su tutte, quella moltiplicata dalle testate internazionali e che porta la firma del presidente di giuria Alfonso Cuaròn: “Sono un messicano che vive in Europa e mi sono sempre sentito il benvenuto. Vorrei la stessa accoglienza per tutti i migranti”. Scrosciano gli applausi, anche quelli di Mattarella, mentre fa il giro del mondo un’altra immagine, che pure meriterà un posto nella storia delle icone della contemporaneità, quella di un bambino di tre anni morto sulla spiaggia, un piccolissimo migrante che li rappresenta tutti. Immagini si confondono con altre immagini.
Inizia il festival e arriva il cinema, quello d’autore, quello mainstream, quello di chi esordisce, di chi non ha ancora un nome, quello che non vedremo mai in sala. Non Everest, ovviamente, kolossal epico dell’islandese Baltasar Kormàkur che ha aperto la Mostra numero 72, che invece, zeppo di star, nelle sale ci arriverà e non è detto che accontenterà tutti, perché il film – ispirato a una storia vera – in parte tradisce gli stereotipi narrativi del genere (e per fortuna aggiungerei), pur rimanendo forte il tema del confronto tra uomo, carico di motivazioni non sempre condivisibili, addirittura irritanti, e natura invincibile e indifferente.
Ma di questi primi due giorni scarsi di festival, aspettando Jonnhy Depp, che annunciano cattivissimo nel film di Scott Cooper Black Mass, non rimane impresso un film del concorso principale, non certo Looking for Grace, che dopo un promettente inizio, annacqua nella pur splendida fotografia (ma siamo in Australia, grazie tante!), resta invece in memoria Italian Gangster di Renato De Maria, quello di Paz e La prima linea, per intenderci, che però a inizio estate aveva deluso non poco con La vita oscena. Di osceno in Italian Gangster c’è invece un trentennio di malavita made-in-Italy e le connessione con la nostra storia, con la società civile e la politica. Il film è un intelligente miscuglio di materiali di archivio, super 8 privati, scene dai film degli anni 70, ricostruzioni di confessioni, dove spiccano i personaggi, i volti, maschere atroci e violente di sei capibanda del centro-nord. I linguaggi si accavallano senza pregiudicare il flusso narrativo, sempre al servizio del racconto, che arriva chiaro in tutta la sua oscenità.
da Venezia, Vera Mandusich