«Non sono razzista e ho molti amici gay, ma…». Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase da persone incontrate casualmente per strada, da conoscenti e persino da amici? Una frase che ha già il sapore della locuzione, di una excusatio non petita, il cui senso è racchiuso tutto nel valore avversativo della congiunzione “ma”, orribile contenitore dell’inutile e subdolo preambolo. Il razzismo, l’omofobia e il pregiudizio in generale sono fondamentalmente questo: l’apparente riconoscimento della dignità di uno status nei cui confini normalizzanti è contenuta la sua stessa negazione. Il pregiudizio, infatti, non può accontentarsi dello stigma, per sopravvivere ha bisogno di una giustificazione, di un populistico ragionamento che mescola verità e menzogna, rendendole interscambiabili, fino a trasformarle in sinonimi; quello stesso ragionamento di cui i demagoghi di tutti i tempi si sono serviti per ottenere consensi e trasformare i loro movimenti politici in vere e proprie sette di fanatici depensanti. Ed è proprio in quest’atmosfera spersonalizzante da convegno di Scientology che il trentottenne newyorkese Jordan Peele, alla sua prima esperienza registica, dopo una lunga militanza di attore prevalentemente televisivo, immerge i personaggi del suo lungometraggio d’esordio.
Il protagonista della storia è Chris Washington (Daniel Kaluuya), un giovane fotografo di colore che ha perso, per circostanze diverse, entrambi i genitori. Da cinque mesi Chris ha una relazione con Rose (Allison Williams), una ragazza bianca dell’alta borghesia, la quale desidera ufficializzare il loro rapporto presentando il fidanzato alla famiglia. Rose convince Chris a trascorrere il weekend dai genitori, assicurandogli che si tratta di persone molto aperte di vedute e per nulla razziste. Giunto nella lussuosa residenza degli Armitage, il giovane si rende progressivamente conto che dietro l’apparente liberalità del padre della fidanzata (Bradley Whitford), medico neurologo di successo, e della madre (Catherine Keener), psichiatra e ipnotista, si cela qualcosa di inspiegabilmente inquietante.
Con apprezzabile disinvoltura drammaturgica, Peele mescola Indovina chi viene a cena? a Non aprite quella porta, allestendo un interessante impianto narrativo in cui l’horror si combina alla tematica sociale e al manifesto di denuncia, sulla scia di quella straordinaria tradizione cinematografica di genere che negli anni ’70 aveva visto in George Romero l’esponente di maggiore spicco. Come Romero, Peele descrive l’orrore con l’orrore, riconducendo il pregiudizio alla mera commercializzazione, all’interesse egoistico della classe media, cinicamente presa nel proteggere i privilegi conquistati e totalmente incapace di comprendere le ragioni altrui.
I riferimenti al trumpismo sono fin troppo evidenti. «Avrei votato Obama per il terzo mandato», dichiara il padre di Rose, lo Spencer Tracy della situazione, già all’inizio del film. Tornano anche antiche tematiche sul ruolo normalizzatore della psichiatria e della cosiddetta “terapia dell’avversione” elaborate in Europa da Michel Focault, ma che avevano trovato in America, con Goffman e, durante il periodo della contestazione, con Thomas Szasz, la loro massima espressione. Con Scappa – Get out, però, Peele si spinge ancora oltre nell’analisi del pregiudizio, e del razzismo in particolare, reintroducendo sottilmente il tema della schiavitù con toni, degni del migliore Wes Craven, che non mancano di rasentare il ridicolo e giocare sui luoghi comuni intorno alle doti fisiche dei neri, a cominciare da quelle sessuali.
Peele governa bene personaggi e tensione per buona metà del film, in un crescendo di inquietudine che tiene incollato lo spettatore alla poltrona. Nella seconda parte, tuttavia, gli equilibri narrativi scricchiolano sotto il peso dei cliché che il genere horror spesso impone, lasciando un leggero amaro in bocca, un retrogusto di insoddisfazione per un’opera prima sicuramente interessante, ma che appare svuotata tanto dalle inquietudini esistenzialistiche dell’indimenticato Zombie, quanto dai toni apocalittici, e vagamente pulp, del più recente La casa del diavolo.
A lasciare perplessi v’è poi quella sorta di dualismo disneyano vecchia maniera, in cui da una parte stanno i buoni – i neri – e dall’altra i cattivi – i bianchi –, che credevamo ormai superato. Ma forse l’effetto Trump si vede anche in questo. Forse i nuovi populismi sono davvero riusciti a convincere, tanto le vittime del pregiudizio quanto i carnefici, che non vi sia nessuna possibilità di dialogo o di integrazione tra le diversità, e che l’unica via d’uscita possibile per costruire una società migliore sia continuare ragionare per frasi fatte, per fake denigranti, e alzare muri di confine sempre più alti, con noi dentro e loro, i negri di turno, fuori.
Manuel Farina
Scappa – Get out
Sceneggiatura e regia: Jordan Peele. Fotografia: Tobi Oliver. Montaggio: Gregory Plotkin. Musiche: Michael Abels. Interpreti: Daniel Kaluuya, Allison Williams, Bradley Whitford, Caleb Landry Jones, Stephen Root. Origine: USA, 2017. Durata: 103’.