La prima domanda che mi viene quando si accendono le luci è: cosa ne penseranno le due ragazze che sono sedute accanto a me. Sono delle sconosciute, e per giunta giornaliste, quindi tengo per me la domanda che ho sulla punta della lingua. Ma è una domanda di sopravvivenza sapere se ancora emoziona la sfida fra i due archetipi (ma potrei dire stereotipi) proposti dal film, intorno a cui ruota gran parte della narrazione: la mascolinità egocentrica, eccessiva, autoreferenziale dello sciupafemmine bello e maledetto, Hunt (Chris Hemsworth), che più classico non potrebbe essere, e quella sicura, genialmente algida, cinica e vincente del bruttino perbene Lauda (Daniel Brühl). Mi domando se siano ancora lì nel nostro immaginario maschile e femminile di adulti, o se quello sullo schermo non sia un ennesimo faraonico gioco a semplificare, forse pensato per adolescenti, o forse neanche per loro. O forse negli anni settanta, tutto era meglio, anche la banalità sessista.
E dunque: Hunt vs Lauda. Entrambi innamorati della velocità su monoposto, entrambi velocissimi e cattivi al punto giusto da ambire ad essere i migliori al mondo. Sulla loro rivalità reale, che riempì le cronache dei giornali non solo sportivi negli anni settanta, sugli ostacoli che la vita – all’uno e all’altro – ha opposto lungo la strada del successo iridato in Formula Uno, si regge l’architettura visiva ed emotiva che Ron Howard impone a questa sua nuova fatica, fra colpi bassi, cadute e resurrezioni, gesta eroiche e superomistiche dentro e fuori i circuiti automobilistici, che non potrebbero mancare in un ritratto che comunque, questo sì, riesce a raccontare il punto di vista da dentro: i rischi da toreri dell’alta velocità, l’avvicinarsi indefinitamente della morte che infiamma il desiderio di vita, e di contro, la richiesta di maggior sicurezza che proprio in quegli anni iniziò a prendere forma, anche per voce dello stesso Lauda. Perché negli anni ’70 si moriva e molto, moltissimo, altro che rischio calcolato.
Se da un lato la pellicola rispetta anche troppo i caratteri del genere, dall’altro trova nella costruzione delle immagini, la sua ragion d’essere più importante. L’intenzione di perseguire il punto di vista dei piloti, si incarna in una trama sottile e molto ben articolata di dettagli, soggettive, pseudo soggettive (emozionanti quelle sotto la pioggia), stacchi accelerati, immagini d’archivio, video grafica, rallenti ben motivati sul piano emotivo dal racconto della percezione dei protagonisti. Se non nuove, queste scelte sono però ben fatte e appaganti nella loro ricchezza e complessità, anche grazie all’ambientazione d’epoca dei circuiti, amplificata dal trattamento fotografico che riesce a essere così fedele al periodo da consentire in alcuni momenti di confondere le immagini di repertorio alla fiction. E sembra che manchi solo un passo – forse suicida, forse impossibile per gli studios e per questo autore – per arrivare a immaginare una forma quasi documentaristica della fiction, che allora sì avrebbe strappato un nostro fervido applauso. Ma a ben guardare, proprio la forma filmica aggiunge un secondo livello micro-narrativo, molto più importante e interessante, che restituisce il palpitare istante per istante della corsa attraverso gli occhi e la psicologia dei protagonisti, quello che forse resta ora che le luci sono accese e tutti si alzano per lasciare la sala.
Massimo Donati
Rush
Regia: Ron Howard. Sceneggiatura: Peter Morgan. Fotografia: Anthony Dod Mantle. Montaggio: Mike Hill, Daniel Hanley. Interpreti: Daniel Brühl, Chris Hemsworth, Olivia Wilde, Christian McKay, Piergiorgio Favino, Natalie Dormer. Origine: Usa, Gb, Ger., 2013. Durata: 123′.