Sono passati pochi mesi dalla finale dei mondiali di calcio del 1970. A Città del Messico una delle nazionali italiane più forti di sempre, nonostante Pelè e quattro gol al passivo, esce a testa alta dallo stadio Azteca. Un manifesto appeso in una delle stanze di una casa signorile nel quartiere della capitale messicana denominato “Roma” ci ricorda che il nono campionato di calcio per nazionali è già entrato nella leggenda. A Roma, enclave per famiglie medio/alto borghesi discendenti dei conquistatori spagnoli, vivono anche gli indios. Sono uomini e donne di fatica, domestici e autisti, legati ai padroni da un rapporto che puzza ancora di latifondismo. La bella casa a due piani di donna Sofia (Marina de Tavira), è accudita da Adela (Nancy García García, la cuoca) e da Cleo (Yalitza Aparicio). Dopo l’abbandono del tetto coniugale del facoltoso marito, a donna Sofia rimane il carico di quattro figli, la madre e un cane. A Cleo spetta riassettare i letti, mettere ordine tra le cianfrusaglie, pulire il cortile interno piastrellato dagli escrementi del cane, congedare i bambini con un bacio prima della buonanotte. Sofia ha bisogno di Cleo e le giura aiuto anche quando quest’ultima rimane incinta, sedotta e abbandonata da un poco di buono. Nel frattempo in città, dopo l’annuncio del recupero delle terre espropriate, esplodono le tensioni sociali.
Dunque, sottraiamo Roma alle polemiche prima, durante e dopo il festival veneziano, alle strategie di marketing a marchio Netflix, alle prese di posizione degli esercenti e fingiamo di poter scrivere per un pubblico che il film potrà vederlo in sala, dove dovrebbe essere visto. Perché Roma è un film esemplare per dimostrare che certe opere non possono prescindere dalle migliori condizioni di fruizione cinematografica, la spiegazione facile del perché il cinema sia uno spettacolo affascinante e commovente. Alfonso Cuarón torna in Messico dopo le esperienze anglosassoni, le magie di Harry Potter, le distopie di P.D. James, la gita spaziale di Gravity, e ci torna per raccontare una storia che, dai ricordi personali, arriva a descrivere uno spaccato sociale impietoso del suo paese all’alba degli anni 70. E che il film sia autoriale si capisce scorrendo i credits del cast tecnico, dove alle voci sceneggiatura, fotografia e montaggio c’è sempre il regista, padrone artistico che fa di Roma un congegno preciso nella scrittura e nelle partiture visive e sonore (grazie anche al sublime lavoro del sound designer Sergio Diaz). Un film per la sala, appunto, che cerca l’ampiezza del grande schermo sin dai titoli di testa, un piano sequenza mirabile che capovolge il mondo e già racconta molto di quel che sarà il film. L’acqua si erge subito quale protagonista di un fondale sbiadito le cui certezze borghesi si sciolgono inquadratura dopo inquadratura. Elemento polisemico, l’acqua che scorre in Roma sembra contaminarsi con la merda del cane domestico e con quella delle svolte politiche che preparano a un futuro austero di violenze.
Cuarón, a cominciare dal bianco e nero, lavora sui contrasti visivi e concettuali per portarli nella narrazione, non senza momenti quasi comici che virano verso la satira: i gringos e gli indios, cultura borghese e retaggio atavico, acqua e fuoco, il basso e l’alto, materia pesante e trasparenze, morte e rinascita, maschile e femminile. Su quest’ultima diade, ad esempio: lo sguardo interno è femminile, quello di Cleo, e la trasformazione più evidente è quella di Sofia che con Cleo empatizza pur divisa dalla classe di appartenenza. La vita che scorre nel film è sempre generata dalle donne. Gli uomini, meschini, sembrano portare i segni della distruzione imminente, la sola presenza fisica ne è presagio, fino all’irrompere della buia pagina di storia che è la strage di Corpus Christi (10 giugno 1971) con le terribili milizie paramilitari dei Falconi.
E ci manca poco che tutti i personaggi vadano alla deriva risucchiati dal buio profondo, proprio come l’astronauta in Gravity, che ad un certo punto ritorna da uno schermo cinematografico in cui si proietta Abbandonati nello spazio di Sturges (non è forse Clooney che si nasconde sotto il casco dell’astronauta?). Questo buio che disorienta e che sembra annunciare il vuoto esistenziale si fa plumbeo nella seconda parte, quando il film cresce in tensione e si inizia a capire che non si tratta più solo della resilienza di due donne, ma di un sistema che si sta spezzando. E tutti gli aeroplani che tanto spesso tagliano obliqui le inquadrature – troppo spesso per non chiederci se non portino altro significato – sono sicuramente i segni beffardi di un altrove lontano e di un progresso promesso che non potrà fare a meno dell’altra America, con le buone o con le cattive. Anzi, con le cattive!
Alessandro Leone
Roma
Sceneggiatura, fotografia e regia: Alfonso Cuarón. Montaggio: Alfonso Cuarón, Adam Gough. Sound Designer: Sergio Diaz. Interpreti: Marina de Tavira, Yalitza Aparicio, Nancy García García, Marco Graf, Daniela Demesa, Diego Cortina Autrey. Origine: Messico/USA, 2018. Durata: 135′.