Ovvero, di come l’Alleanza Ribelle recuperò i piani della Morte Nera.
C’è un racconto lungo di Stephen King intitolato Una storia d’inverno. Ad esergo del racconto c’è questa frase: “E’ la storia, non colui che la racconta”. Significa, tra le altre cose, che le storie possono sviluppare una consistenza propria e diventare mondi indipendenti dal loro autore. Se così stanno le cose, le vicende narrate finisco per essere solo una piccola parte di questo mondo altro. Molto, moltissimo si può ancora raccontare, anche dentro quelle stesse vicende. Basta prendere uno dei tanti sentieri disseminati dentro il racconto, ma non ancora percorsi. Basta illuminare una zona suggerita, ma fin’ora rimasta in ombra. Quando la Disney ha acquistato in blocco il mondo di Star Wars, ha deciso che di questi sentieri ne avrebbe percorsi almeno tre, alternandoli all’uscita degli ultimi capitoli del filone principale. Rogue one: a Star Wars Story (2016) è uno di quei sentieri. E già nel nel titolo è riassunto il senso di quanto scritto fin qui: una storia di Star Wars. Una fra le mille possibili. Tuttavia non sarebbe coretto definire Rogue one uno spin-off, dal momento che le vicende narrate sono profondamente innestate nel corpo principale. Da lì si parte e lì si torna. Uno Star Wars 3.5? Più sì che no. Ma uno scarto di lato c’è stato, quello è innegabile.
A provarci ad uscire dal solco tracciato è Gareth Edwards, che già con Godzilla (2014) aveva tentato una rielaborazione del mito. Le sue intenzioni sono chiare fin da subito: niente scritte che scorrono in prospettiva, niente movimento di macchina a scendere dalle stelle fisse allo scafo di un incrociatore in movimento. E poi una prima parte fatta di frammenti narrativi paralleli che lo spettatore dovrà essere bravo a tenere lì, in sospensione, fino al momento di poterli riunire in un unico filo conduttore. Con una fotografia spesso a tinte fredde, lontanissima da quanto visto negli episodi precedenti.
Con questo tipo di luce addosso si muovono protagonisti del film di Edwards, che sono personaggi minori, gregari. Gente sporca che fa il lavoro sporco. E il mondo che li circonda sembra rispettare inevitabilmente i loro ruoli: un mondo in decadenza, pieno di una tecnologia avanzata eppure vecchissima, che segna – molto di più di quanto fatto da Abrams con Star Wars VII – Il risveglio della forza (2015) – un allontanamento definitivo dalla seconda trilogia. Il tentativo è allora quello di portare, se non proprio della realtà, almeno un certo di tipo di asprezza: con le divise dei soldati imperiali ammaccate e i ribelli che non esitano ad uccidere. Con i cattivi che rimangono cattivi, ma con i buoni che forse del tutto buoni non sono; o almeno non sempre. Con un senso di oppressione da parte dei più forti che si fa evidente e che nella lunga sequenza nella città sacra degli Jedi sembra voler ricordare da molto vicino le immagini di occupazione\liberazione delle nostre guerre, con un effetto spiazzante.
E’ un tentativo interessante, questo di Edwards. Coraggioso e, almeno in parte, bisogna riconoscerlo, riuscito. Se non esce del tutto vincitore da questa scommessa è perché alla sceneggiatura è mancata quella sterzata decisiva che il suo lavoro di regia avrebbe richiesto, dal momento che la semplificazione narrativa mantiene il proprio senso, arrivando anzi a diventare un valore, fintanto che si muove nei territori del mito. Con il suo tentativo di sottrarre alla saga porzioni di mito in cambio di uno sguardo più realistico, Edwards finisce inevitabilmente per chiedere anche allo svolgersi degli eventi un altro tipo di complessità. Ma quel cambio di passo non arriva. E forse nemmeno poteva arrivare.
Senza rivelare qui dettagli della trama, ci limiteremo a dire che a dispetto di una battaglia finale certo più cruenta e solida rispetto quelle presenti negli altri capitoli della serie (fa forse eccezione l’assalto imperiale ad un piccolo villaggio nei primi minuti dell’episodio VII), i ribelli arriveranno a perseguire i loro scopi attraverso azioni del tutto simboliche e niente affatto plausibili, nemmeno sotto il profilo del war-movie più fantasioso. Da questo punto di vista, l’apparizione di Dart Fener segna un’inevitabile ritorno all’ordine. Incarnazione del mito, condanna con il suo comparire sulla scena i gregari di Edwards alla sconfitta. O per meglio dire, alla morte. Come a dire che, sebbene siano stati indispensabili, per loro non può esserci davvero posto.
Matteo Angaroni
Rogue One: a Star Wars story
Regia: Gareth Edwards. Sceneggiatura: Chris Weitz, Tony Gilroy. Montaggio: Jabez Olssen. Fotografia: Greig Fraser. Interpreti: Felicity Jones, Diego Luna, Mads Mikkelsen, Ben Mendelsohn, Riz Ahmed, Yi-wen Jiang, Forest Whitaker. Origine: Usa, 2016. Durata: 133′.