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Rifkin’s Festival

Il festival di Woody

L’anziano Mort (Wallace Shawn) è un ex insegnante di cinema, con l’idea fissa del romanzo della vita. Segue sua moglie Sue (Gina Gershon), parecchio più giovane di lui, a San Sebastian, dove, in occasione del festival di cinema, lei fa da ufficio stampa per un film di un regista emergente francese molto apprezzato dalla critica (Louis Garrel). Il rapporto tra i due sembra logoro, tanto che lei cede alla seduzione del regista e lui, ipocondriaco, si invaghisce di una attraente cardiologa appassionata di cinema d’autore (Elena Anaya). Tra illusioni e disillusioni, occasioni perse e progetti irrealizzati, Mort inizia a fare i conti con gli anni.

Basta avere una discreta confidenza con la filmografia di Woody Allen per comprendere, leggendo anche solo la breve sinossi, come Rifkin’s Festival sia l’ennesimo specchio cinematografico in cui l’autore si riflette dopo aver indossato gli abiti del personaggio irrisolto, incapace di trovare vero appagamento nella vita, e che nella vita pare sempre un turista in cerca di luoghi degni di essere fotografati. Alter ego di Allen è Wallace Shawn, non nuovo sui set del regista newyorkese, rotondo, buffo, con un’aria a tratti svagata, eppure commovente, più forse di quanto lo sarebbe stato Allen, per il semplice fatto di averlo visto troppe volte nel ruolo.
Come sempre, con piglio ironico il regista riflette sulla caducità dell’esistenza e sugli affanni degli uomini, sulle rincorse insensate e la ricerca di obiettivi che rendano meno doloroso il pensiero della vanità di ciò che siamo e di ciò che ci circonda. I bersagli sono ancora una volta gli pseudointellettuali, la cultura che degrada fino a diventare costume, il pensiero indebolito dalla massificazione (adesso peggio con i social network), l’arte presunta di vanagloriosi autori pieni di sé, falsi nel mascherare con etica debole il desiderio di celebrità.

Mort è il contrappunto solitario, il pesce fuor d’acqua, come sempre Allen nei racconti di Allen, che volta pagina ad ogni film per ritornare al principio, come la ruota panoramica di Coney Island ne La ruota delle meraviglie. Gira e rigira ogni occupazione ci distoglie dalle domande perenni che ci interrogano e che, prima o poi, ci sgomentano. Ci sono più che mai echi bergmaniani. Anzi, Allen è un Bergman in chiave comica, ride per non piangere della commedia della vita, laddove il maestro svedese affondava nel dramma familiare. Nei panni di Mort, tergiversa con il suo presente invernale per cercare emozioni che allontanino l’incombere della vecchiaia. Ed è così naif che pure la morte “in persona” non infierisce, ma elenca piuttosto poche accortezze per allungare la vita, mandando a monte la partita a scacchi.

Se non è un testamento artistico, poco ci manca. Allen ribadisce definitivamente quelli che sono stati i suoi fari nel disfacimento culturale contemporaneo: li mette in scena come fosse la scrittura di un compendio, perché non volino via come le parole. Ci sono Fellini, Welles, Lelouche, Buñuel, Truffaut, Godard e appunto Bergman, tanto che il film pare a tratti un pretesto per ri-immaginare in chiave comica (mai parodistica), e nella forma del sogno ad occhi chiusi e aperti, scene da Jules et Jim, Fino all’ultimo respiro, Quarto potere, L’angelo sterminatore, e dell’amato Bergman (addirittura tre citazioni) Persona, Il posto delle fragole, Il settimo sigillo. Mort guarda la sua vita e per comprenderla ricorre al cinema, si confonde con il cinema, forse ne cerca il senso attraverso i film. E’ un attraversamento dello schermo concettuale ma esplorativo, meno fantastico di quanto non fosse ne La rosa purpurea. Per ridere davvero bisognerebbe aver ben presenti i dialoghi originali, per capire con quale acume Allen incastoni strumentalmente i sogni cinematografici di Mort nel racconto.

Il festival di Mort Rifkin non è il Festival di San Sebastian, non ha niente a che vedere con le velleità di giovani pretenziosi registi in cerca di fama, così pieni di sé da credere davvero di poter risolvere con una pellicola il conflitto israelo-palestinese (!). Il festival di Mort è un cartellone con i film della vita che, in sala, il mistero dell’esistenza lo hanno infittito ad ogni domanda posta da spettatore.
Adesso, che Allen ci fa ridere un po’ meno, proprio in questi film più fragili, che finalmente hanno smesso di inseguire il capolavoro, ci sembra di cogliere il dramma di un uomo senza risposte.

Vera Mandusich

Rifkin’s Festival

Regia e sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Vittorio Storaro. Montaggio: Alisa Lepselter. Interpreti: Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel, Christoph Waltz, Elena Anaya, Steve Guttenberg, Richard Kind, Damian Chapa. Origine: USA/Spagna, 2020. Durata: 92′.

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