Richard Jewell è il 39° film di Clint Eastwood dietro la macchina da presa, nuovo tassello di una filmografia in continua evoluzione e specchio complesso della realtà. Il film, basato sull’articolo American Nightmare – The Ballad of Richard Jewell di Marie Brenner (Vanity Fair), racconta la storia vera di Richard Jewell, guardia di sicurezza che sventò un attentato dinamitardo durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996 per poi ritrovarsi sospettato di esserne l’autore.
Clint Eastwood torna a riflettere sulla figura dell’ “eroe americano”, un tema caro al regista e sviluppato nelle sue svariate sfaccettature in molte delle sue ultime produzioni: ricordiamo il cecchino Chris Kyle (Bradley Cooper) di American Sniper, in guerra per la difesa degli ideali della sua patria, e i tre ragazzi americani di Ore 15:17 – Attacco al treno che, nella concezione più pura dell’eroe, agiscono d’istinto sventando l’attacco terroristico al treno Thalys in viaggio da Amsterdam a Parigi il 21 agosto 2015. In questo caso, però, il protagonista è un omaccione ingenuo e al limite del ritardo mentale, che ci riporta alla memoria il personaggio Forrest Gump, privato della fortuna che lo contraddistingueva. Richard crede ciecamente nelle istituzioni americane e al ruolo importante che svolgono per la società. Tutte le sere legge il codice penale, di cui sa diligentemente a memoria ogni istruzione e protocollo, e il suo più grande sogno è quello di entrare nel corpo di polizia per la difesa dei più deboli. La vicenda di Richard si connette strettamente a un altro personaggio falsamente accusato, quello del protagonista del film Sully: qui il gesto eroico del pilota interpretato da Tom Hanks, che con un atterraggio d’emergenza salva le vite dei passeggeri a bordo, si ritorce contro di lui, mettendolo al centro di un’indagine giudiziaria in cui la sua compagnia area decide di abbandonarlo a se stesso difendendo egoisticamente i propri interessi. Anche per Richard, il “fare la cosa giusta al momento giusto” viene in un primo momento premiato dalla stampa e dall’opinione pubblica per poi ritorcersi contro di lui in un folle linciaggio mediatico, in cui diviene vittima di una giustizia inquisitoria e ostinata che mette alla gogna un uomo innocente pur di coprire i propri stessi errori. Quella che ci viene mostrato da Clint Eastwood è un ritratto fortemente disilluso dell’America contemporanea, in cui lo Stato e le istituzioni hanno scelto di voltare le spalle ai suoi cittadini e i cui principi fondanti sono stati schiacciati dai meccanismi di un sistema corrotto. Una condizione che spinge inevitabilmente all’individualismo e alla sfiducia della persona verso gli apparati di difesa del cittadino. In questo quadro, la polizia e le forze dell’ordine ci sono mostrate in una forma quasi macchiettistica e paradossale, composta da agenti della peggior specie: uomini abusatori di potere, pusillanimi, superficiali, ignoranti del pericolo, disinteressati della protezione del prossimo e totalmente inutili nel momento del bisogno. Una raffigurazione impietosa che colpisce anche il security service dell’ FBI, mostrandone i lati più oscuri. Nel film, gli agenti federali che indagano sul caso d’attentato, sprovvisti dell’alcun minima prova, scelgono di addossare le colpe delle proprie mancanze a una preda debole che, seguendo il loro ragionamento, rientra perfettamente nei parametri “dell’attentatore solitario: un bianco frustrato, aspirante poliziotto, che vorrebbe diventare un eroe”. Paradossale è come sia proprio Richard, etichettato in questa maniera meschina, l’unico ad essersi accorto che la vita di centinaia di persone era in pericolo e aver svolto semplicemente quello che è il suo lavoro: “proteggere gli altri ad ogni costo”, come lui stesso definisce la sua missione.
Se il primo grande potere dell’occidente contemporaneo è quello governativo, dall’altra parte abbiamo quello mediatico, come Lionel Hutz (Sam Rockwell), avvocato di Richard, dichiara davanti le telecamere in difesa del suo assistito: “Richard Jewell è un uomo innocente messo sotto accusa dai due più potenti organismi del mondo: il Governo degli Stati Uniti e i Media”. Così un nuovo “personaggio” viene introdotto nel quadro dei carnefici, quello dei mass media che, capaci d’influenzare a proprio piacere l’opinione delle masse, possono contare su una completa manipolabilità dell’immagine e del racconto della verità. Una responsabilità morale fragile, che viene qui totalmente infranta da una dinamica disumana, in cui a prevalere sono gli interessi economici e personali con una continua ricerca dello scoop a tutti i costi. Una realtà tutt’altro che rasserenante, in cui i giornalisti sono mostrati come assetati di notizie, pedine spietate e aggressive del sistema informativo. In tale scenario, tanto distruttivo quanto autentico, pare esserci spazio solo per gli affetti personali, dove un caro amico o la propria famiglia possono diventare l’unica vera speranza e riparo per Richard, e in modo più ampio per l’individuo americano contemporaneo. Non deve quindi stupirci che il film, con una visione così scomoda e fuori dagli schemi Hollywoodiani, sia escluso dai giochi ai prossimi Oscar, a parte per la nomination quasi d’obbligo come miglior attrice non protagonista all’icona Kathy Bates, che interpreta la madre di Richard nel film.
Ciò poco importa, perché Eastwood porta sul grande schermo una storia delicata e lo fa col massimo dell’attenzione e profondità narrativa. Il suo è un linguaggio quasi anonimo, che offre poco spazio allo spettacolare e all’autoreferenzialità. Il racconto è progressivo: gli elementi ci vengono spiegati con i giusti tempi, facendoci conoscere dapprima i personaggi principali, i loro caratteri le loro vite, per poi far incrociare inevitabilmente i loro destini e storie. Il regista ha scelto, a 23 anni di distanza, di tornare a girare proprio nello stesso periodo e negli stessi luoghi dell’incidente originale del Centennial Olympic Park di Atlanta. Qui, il film ci regala una scena da manuale, in cui tutto è a suo posto e gli elementi registici si incastrano l’un l’altro in un connubio perfetto di suspance e tensione emotiva. Il suono è avvolgente e immersivo, gli scatti forsennati dei giornalisti assediano lo spettatore in poltrona e l’impatto della catastrofe penetra nella sala con un senso di stordimento profondo. Anche i tempi sono calcolati alla perfezione, con una storia di oltre due ore che ti tiene legato allo schermo, davanti al volto affranto di Richard e alle parole struggenti della madre. In tal senso, le interpretazioni sono davvero ammirabili, con menzione speciale a Paul Walter Hauser nei panni del protagonista, semplicemente perfetto.
Con Richard Jewell, Clint Eastwood, 90 anni il prossimo maggio, aggiunge un altro tassello evolutivo al suo sguardo sul mondo. Un film importante che, oltre a commuovere ed emozionare, ha la forza di generare una riflessione collettiva quanto mai necessaria, da cui nessuno può ritenersi realmente estraneo.
Samuele P. Perrotta
Richard Jewell
Regia: Clint Eastwood. Sceneggiatura: Billy Ray. Montaggio: Joel Cox. Musiche: Arturo Sandoval. Interpreti: Paul Walter Hauser- Richard Jewell, Sam Rockwell- Watson Bryant, Kathy Bates- Bobi, Jon Hamm, Olivia Wilde – Kathy Scruggs. Origine: USA, 2019. Durata: 129′.