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Rheingold

Il cinema di Fatih Akin da tempo cerca la vena dei tempi migliori. Rheingold è un film in linea con l’ultima produzione, altalenante, a tratti folgorante, ma anche incapace di trovare compattezza narrativa ed estetica (in questo senso Soul Kitchen resta il suo lavoro migliore). Eppure, alla fine delle due ore e venti, non si può dire di non aver visto un film che tiene, capace di incatenare lo spettatore al suo oscuro antieroe, quel Giwar Hajabi, meglio noto con il nome d’arte di Xatar, che dopo essere entrato e uscito dai penitenziari, diventa un famoso rapper.

La storia di Xatar non è però la classica storia del delinquente di periferia, figlio di migranti, che sfida un destino segnato per redimersi attraverso la musica. La sua è una storia che si intreccia con quella dei curdi esuli in Germania. Il suo primo ricordo è il carcere in cui, molto piccolo, fu detenuto con i genitori musicisti, militanti, loro malgrado, nella resistenza che difendeva i diritti del popolo curdo nell’Iran di Khomeyni. L’esilio in Germania è frutto della stima di cui unanimemente godeva il padre, famoso direttore d’orchestra. Non una famiglia di profughi qualsiasi, dunque, ma un nucleo apparentemente coeso che, dopo l’inferno, ha goduto di una strada che, se non era in discesa, rivelava comunque traiettorie facilitate.
Giwar, indirizzato al pianoforte dal padre fortemente proiettivo, sbanda quando il genitore, dieci anni dopo, lascia la famiglia per un’altra musicista. E’ l’inizio di un cammino difficile, alla ricerca di soldi facili e di un’immagine “rispettabile” nelle basse periferie di Bonn. Dimenticata la musica, Giwar si farà strada, finendo spesso in carcere, fino ad una condanna di sette anni dopo una rocambolesca rapina.

Il titolo è wagneriano, ma i riferimenti si fermano qui, il film di Fatih Akin è adrenalina pura, a metà tra romanzo di formazione e filone carcerario, un po’ poliziesco, o meglio heist movie, con uno sfondo storico preciso e per nulla buttato lì, ben definito nella figura del personaggio eroico della madre (che forse meritava più spazio).
Raccontato in un lungo flashback, Rheingold in definitiva è il biopic di un campione contemporaneo, nato in una grotta, e sotto le bombe, con un patrimonio genetico da fare invidia, caduto negli inferi dopo aver rinnegato la famiglia, riemerso a fatica, ricaduto nuovamente, per poi trovare la via maestra tornando alle origini: la musica.
Il ritmo delle vicende è dato dall’impetuosità con cui il protagonista azzanna la vita, dalle sue urgenze, dall’impazienza con cui vuole arricchirsi, infine dall’inquietudine (sindrome da abbandono?) che sembra mordergli le caviglie. Akin non si sforza di razionalizzare la sua regia, ma lascia altresì che il congegno filmico proceda in maniera sincopata, con accelerazioni improvvise, contrazioni e ellissi temporali, tra Europa, Siria, penitenziari, night club, sceicchi e padrini.
Peccato che la cotruzione dei personaggi minori non sia all’altezza, così prevedibili, così progionieri dello stereotipo. A tratti sembra che il regista guardi troppo, snaturandosi, a modelli americani (scorsesiani?), perdendo della storia il posizionamento morale. Bene e male sembrano troppo ben definiti in Giwar, così che lo sporco non sia mai davvero interessante. Per questo il suo personaggio è punto dinamico che non annoia il racconto, ma incapace di lasciare traccia nelle coscienze, di incidere con una riflessione più universale che ti aspetti da un angelo caduto, o da un demone che ha abiurato l’inferno.

Vera Mandusich

Rheingold

Regia e sceneggiatura: Fatih Akin. Fotografia: Rainer Klausmann. Montaggio: Andrew Bird. Musiche: Ralf Kemper. Interpreti: Emilio Sakraya, Kardo Razzazi, Kazim Demirbas, Mona Pirzad, Karim Günes, Meto Ege, Greta Sophie Schmidt, Sogol Faghani. Origine: Ger/Ita/Olanda, 2022. Durata: 140′.

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