L’Yggdrasil, nella mitologia germanica, è l’albero della vita, un’allegoria mutaforma dai significati complessissimi che si protende, con le sue fronde lussureggianti e le radici profonde, all’interno del cosmo inesplorato, in quella spazialità atemporale dove la rappresentazione delle cose si perde nella trascendenza, e i misteri della natura in quelli più impalpabili della metafisica. È forse il tempo il grande enigma dell’Yggdrasil, quello stesso albero (frassino nella tradizione vichinga, ma è una tassonomia di comodo, come il frutto biblico nell’iconografia cristiana) che chiudeva Lo specchio (1975) di Tarkovskij e che apre, in maniera del tutto speculare, l’ultimo film di Alejandro González Iñárritu. In fin dei conti questo rompicapo einsteniano non ha una sua realtà immanente, cioè non esiste di per sé come entità universale, come dimensione oggettivata, ma varia, si trasforma, si adatta alle circostanze rinunciando a qualsiasi centralità, a qualunque modello di riferimento. Il tempo è sempre stato rappresentato come un eterno fluire, il movimento incessante di un fiume, l’inconsistenza dei liquidi che scivolano tra le dita, ed è proprio quello che vediamo durante i titoli di testa: una foresta ammantata di acqua, che si sposta come animata di vita propria, che serpeggia tra una distesa di tronchi pietrificati, un’inquadratura che cattura la luce di scorcio, dal basso verso l’alto; ma è soltanto un istante, effimero come tutti gli istanti, destinato a scomparire nel nulla. Cronos. Panta rei. L’etimologia è forse la stessa. Ecco il fuoco di una capanna che brucia, memento della grande apocalisse germanica, il Ragnaroek, annunciato in tutta la sua gloriosa mostruosità dal Fimbulvetr, gelido inverno durante il quale i legami sociali si spezzano e la Natura non potrà più beneficiare del calore del sole. Strano, perché Iñárritu, che nei suoi lavori precedenti, 21 grammi (2003) e Babel (2006) in particolare, aveva spostato momenti e vicende come in un rebus insolubile, sceglie di ordinare cronologicamente fatti e antefatti della sua storia. Anche se questo resta il suo film più spirituale, quello dai contorni particolarmente ostici, dalle simbologie imperscrutabili che pure hanno tutte un loro corrispettivo nel mythos, l’abile regista messicano approfondisce la sua personale rappresentazione del tempo un po’ come aveva già fatto in Birdman (2014), ovvero negando la cesura del montaggio, relegandola al limbo delle possibilità: Revenant comincia allora come un grande piano sequenza, che contiene nel suo incipit tutto quello che vedremo, che annulla ogni punto sulla linea del tempo per far convergere il tempo stesso a una sola grande molteplicità: il passato del cacciatore (Leonardo Di Caprio), la sua famiglia che lo attornia come in un sogno spettrale, il lutto che ha subito ma che finisce per diventare il macabro preludio del suo immediato futuro.
Il western è, come sappiamo, composto da due grandi elementi, due verità: l’epica e la metafisica dell’epica. Cosa c’è di più metafisico di una ghost town priva di vita, con le sue piazze vuote, i crocicchi di strade abbandonate; oppure una carovana di cowboy solitari che lentamente si perde nella monumentalità di un deserto di sabbia e rocce? De Chirico è forse stato il pittore più inconsapevolmente western della storia dell’arte, anche se nelle sue opere non c’era altro che riflessione spaziale, che collocazione geometrica di corpi ed elementi, niente epos, nessun gusto per la leggenda e per il racconto; così Iñárritu diventa il regista contemporaneo più inconsapevolmente dechirichiano, perché trasforma i luoghi del western in toponimi privi di ubicazione, di identità, e che di western hanno lo stesso freddo ascetismo delle piazze di Ferrara, di queste architetture deumanizzate in cui non c’è altro che la mistica coincidenza di linee e superfici. Eliminando la dimensione dell’epica, il western (di Iñárritu, ma forse qualsiasi western) diventa allegoria. Ma non della vita di Cristo e la sua resurrezione, come farebbe certo supporre la sepoltura di Di Caprio e il conseguente ritorno al mondo dei viventi, ma di Odino, il dio dei germani che per acquisire la conoscenza delle rune si fece appendere per nove giorni, quasi crocifisso, alle fronde dell’Yggdrasil, per poi vagare per le terre mascherato da viandante. Ed è proprio per un sorso alla fonte magica di Mímir, una delle fonti dello stesso Sacro Albero, che Odino dovette impegnare un occhio. È la medesima simbologia che Nicolas Winding Refn riservava al suo protagonista in Valhalla Rising (2009), ma qui che ritroviamo in maniera più formale, appena accennata ma nondimeno presente in filigrana come il segno della coclea che accompagna il sonno di Di Caprio: Glass. Questo il nome fittizio del protagonista. Vetro, ma anche occhiale, e quindi ciò che permette di vedere meglio, proteggendo e preservando al contempo lo sguardo.
Revenant, il redivivo, non è tanto una storia di vendetta, ma un percorso di rinascita fisica e spirituale, di trasformazione dell’individuo da carne a Natura, di congiunzione tra l’umano e il divino in una sola cosa. La Natura, in questo film e nello stile visionario di questo regista, è però svuotata da qualsiasi barlume di etica cristiana, cosa insolita, forse addirittura eccezionale in un western, persino in un western crepuscolare come lo era quello della tradizione italiana. La Natura è crudeltà, è bellezza, è poesia della morte. Non è importante che questa violenza si manifesti nello scontro feroce con gli orsi, con i pellerossa, nello sventramento selvaggio di un cavallo, nella mutilazione dei corpi umani e animali, perché l’etica della Natura non ha altra morale che la preservazione della stessa. Non è Satana quel perfido John Fitzgerald (Tom Hardy) che Mr. Glass è deciso a catturare; non sono demoni nemmeno gli indiani che appaiono ora come terrificanti avvoltoi, ora come inaspettati angeli custodi, bensì emanazioni del Caos, manifestazioni di un mondo collocato al di là dei principi, della virtù come della malvagità. È ancora l’Yggdrasil la chiave di volta, il sommo mistero cosmologico, un concetto che è prima e dopo contemporaneamente, che unisce nella stessa forma presente, passato e futuro; un’immagine, una metafora, un’idea di etica (e di estetica) talmente impenetrabile che l’intelletto umano non può che soggiacervi con un atteggiamento di ammutolente contemplazione.
Marco Marchetti
Revenant
Regia: Alejandro González Iñárritu. Sceneggiatura: Mark L. Smith. Fotografia: Emmanuel Lubezki. Montaggio: Stephen Mirrione. Musiche: Ryuichi Sakamoto, Bryce Dessner, Carsten N icolai. Interpreti: Leonardo Di Caprio, Tom Hardy, Paul Anderson, Will Poulter, Domhnall Gleeson. Origine: Usa, 2015. Durata: 156′.