Consapevole di incorrere in una potenziale valanga di insulti da parte degli estimatori di una saga che ha abbracciato intere generazioni, nonché aficionados del grande, unico e irripetibile Sylvester Stallone, mi lancio senza precauzioni nel vortice tamarrissimo di Rambo: Last Blood.
Il Vietnam di John Rambo in questo ultimo capitolo – ma sarà proprio l’ultimo? – è un giro di prostituzione e droga che fa capo ai cattivissimi fratelli Martinez. Eh si, clichè dei clichè, sono messicani. Poco importa se per giustificare una carneficina splatter senza precedenti si imbastisca una sceneggiatura quasi inesistente: è Rambo, e il pubblico vuole vedere le teste saltare. Effettivamente di teste ne saltano, ma non vorrei spoilerare una delle scene che più ho amato in assoluto di tutto il film.
Il sipario si apre su una tempesta in una foresta americana che ci riporta nostalgicamente a quella del 1982, quella degli albori della saga, lo scenario è piuttosto drammatico, quasi ai limiti dell’assurdo, e il buon Rambo a cavallo, quasi come se fosse un antieroe immolato alla causa, tenta di salvare dei ragazzi in pericolo. Ce la fa sì e no, ed ecco che riemergono prepotentemente sensi di colpa irrisolti da più di 40 anni.
Adrian Grunberg, grazie all’utilizzo di luci fortemente contrastate e inquadrature dal basso verso l’alto che stagliano il personaggio rendendolo quasi estraneo al contesto circostante, ci presenta un Rambo stanco, consumato dalle tragedie, quasi rassegnato, non più un reduce di guerra, ma un cowboy post-western che si prende cura del suo ranch in Arizona e vuole farci credere di condurre una vita tranquilla. Non dimentichiamoci però che comunque stiamo parlando di John Rambo, pronto a vendicare anche una famiglia acquisita, pur di salvare qualcuno, quasi a tentare di scontare, ancora una volta, il drammatico fardello dell’essere ancora in vita.
L’opera di Grunberg risulta spaccata in due a livello narrativo: una prima parte caratterizzata da una scrittura lenta e poco accattivante; la seconda parte, quella che salva il film e fa tornare lo spettatore a casa contento, è un action movie splatterissimo, che ricorda vagamente il Machete di Rodriguez&Maniquis. Lo snodo cruciale del soggetto, curato dallo stesso Stallone in collaborazione con Dan Gordon, è abbastanza intuitivo: la giovanissima Gabrielle (Yvette Monreal) figlia della domestica, parte ingenuamente per il Messico con l’obiettivo di incontrare il padre che l’ha abbandonata molti anni prima e, adescata da quella che crede essere una sua amica, viene svenduta al mercato della prostituzione minorile dei Martinez. Prepotentemente si presenta l’ennesima sfida per Rambo, un Rambo che abbiamo visto come compagno, fratello, amico e che adesso ci si presenta come il padre vendicatore per eccellenza, ma d’altronde il motto è proprio “vivere per niente o morire per qualcosa” e aggiungerei con molta serenità “qualsiasi cosa”.
Dopo aver tentato, invano, di salvare la giovane ecco che viene allestita una vera e propria trincea per sterminare fino all’ultimo spacciatore messicano; un mattatoio da togliere il fiato, talmente splatter da risultare ai limiti dell’assurdo. Oltre che a perderci la testa ci si perde anche il cuore. Le seguenti domande sorgono spontanee: “Ha senso fare un sequel? Assolutamente no.” “Lo vogliamo un sequel? Ma certo che si!”
Tatiana Tascione
Rambo: Last Blood
Regia: Adrian Grunberg. Sceneggiatura: Matthew Cirulnick, Sylvester Stallone. Montaggio: Todd E. Miller. Musiche: Brian Tyler. Interpreti: Sylvester Stallone, Paz Vega, Yvette Monreal, Joaquín Cosio, Óscar Jaenada, Sergio Peris-Mencheta, Adriana Barraza, Jessica Madsen, Sheila Shah. Origine: USA, 2019. Durata: 89′.