Margherita Camurati ha nove anni e una sorella maggiore. Margherita ama il tango e beve solo tamarindo. A casa tutti la chiamano Pulce. Pulce è autistica, ma ha una famiglia che le vuole bene e che cerca costantemente di comunicare con lei. In casa Camurati si parla un linguaggio diverso, fatto di immagini e di gesti strani e ripetuti. Un linguaggio che assomiglia a Pulce. Non è una cosa facile. Ci vuole tempo e pazienza e amore. Non è facile, ma funziona.
Poi, una mattina qualunque, la mamma va a prendere Pulce a scuola, ma Pulce non c’è. I servizi sociali l’hanno portata in un istituto perché sospettano che il padre abbia abusato di lei.
Per il suo film d’esordio, Giuseppe Bonito sceglie il libro di Gaia Rayneri, uscito per Einaudi nel 2009 con lo stesso titolo del film. Anche il libro della Rayneri è un esordio. Da due anni, Pulce non c’è gira per i Festival di mezzo mondo, portando a casa consensi e premi. Esce però nelle sale solo in questi giorni, cercando di colmare con il passaparola i limiti di una distribuzione carente. E’ un peccato, perché è un ottimo film.
Anche se si muove su un terreno delicato, Giuseppe Bonito dimostra di possedere una qualità rara per un esordiente, e cioè un sorprendente equilibrio. Con argomenti di questo tipo la retorica, o il pietismo, sono sempre lì, ad un passo; ma Bonito tiene botta e porta sicuro il suo film sui binari che si è scelto.
Uno degli aspetti più evidenti dell’autismo è la difficoltà di comunicare con il mondo esterno. Chi è affetto da autismo sviluppa un proprio linguaggio che è necessario imparare, per quanto difficile sia. Da questa difficoltà nasce il caso che sconvolge la famiglia Camurati: è da un problema di comunicazione che discendono le accuse nei confronti del padre di Pulce. Ma quello del linguaggio non è un problema che riguarda solo le relazioni da e verso Pulce. Bonito fa della difficoltà di comunicare la struttura portante del film. Dal momento in cui Margherita viene sottratta alla sua famiglia, ci accorgiamo che tutti gli attori della vicenda hanno un proprio linguaggio, che è come un a barriera tra se stessi e gli altri. Ha un proprio linguaggio la madre di Pulce, che è da subito incompatibile con quello dell’apparato dei servizi sociali, dei medici. Ha un proprio linguaggio Giovanna, la sorella maggiore, che sta entrando nell’adolescenza e scopre un mondo così diverso da quello modellato sulle esigenze di Pulce. Ha un proprio linguaggio il tribunale. E ha un proprio linguaggio il padre di Pulce, che a un certo punto semplicemente si chiude nel silenzio, interropendo in questo modo la capacità della famiglia di essere uniti e darsi forza a vicenda.
La ricerca di un linguaggio è allora come la ricerca di un equilibrio, una trama sottile come la tela del ragno che tanto affascina Giovanna, puntualmente richiamata in una delle inquadrature finali.
E’ un’intuizione fortunata quella di Giuseppe Bonito, perché gli permette di partire da un aspetto specifico della malattia di Margherita per allargarlo su una scala molto più ampia, in cui siamo coinvolti tutti.
Sotto una regia dalle idee tanto chiare e spinto in avanti da un attento uso delle caratteristiche degli attori a disposizione (da un lato la chiassosità energica di Marina Massironi nella parte della madre e dall’altra gli ingombranti silenzi di Pippo Delbono nella parte del padre), Pulce non c’è è un film che porta a termine con intelligenza e talento il compito che si era prefissato. Non è una cosa da poco. Non rimane, anzi, molto altro da chiedere.
Matteo Angaroni.
Pulce non c’è
Regia: Giuseppe Bonito. Sceneggiatura: Monica Zapelli, Gaia Rayneri. Montaggio: Roberto Missiroli. Musiche: Niccolò Fabi. Interpreti: Marina Massironi, Pippo Delbono, Piera Degli Espositi, Francesca Di Benedetto, Ludovica Falda.
Origine: Italia, 2014. Durata: 97′