Steve Butler conosce bene chi vive e lavora in campagna. Le sue radici affondano nella fertile terra agricola, anche se dopo generazioni di coltivatori, Steve ha dovuto reinventarsi come agente in carriera di una grossa compagnia. Il suo compito è quello di convincere gli agricoltori a cedere i diritti sulla loro terra dove poi verrà estratto il gas naturale. La crisi incipiente e l’offerta di ingenti somme di denaro rendono il lavoro di Steve più semplice, ma ci sono realtà che anche lui fatica a comprendere. Giunto in una cittadina delle Midland, troverà una forte resistenza guidata da un giovane ambientalista fermamente intenzionato a impedire il successo della Global.
Dimenticatevi la Julia Roberts di Erin Brockovich, il film sceneggiato da Matt Damon e John Krasinski racconta una vicenda di speculazione ecologica dal punto di vista del carnefice (sebbene ingenuamente inconsapevole). Un film che colpisce basso anche perché ribalta certi stereotipi sulle fonti alternative e pulite che promettono un mondo migliore e più ricco anche a chi vive nei luoghi di estrazione. Promised Land si fregia di essere il film che le compagnie energetiche americane non avrebbero voluto farci vedere, in realtà è un buon film di denuncia che però non sembra diretto da un regista conteso da festival internazionali come Gus Van Sant. Non è per altro un mistero che questo film avrebbe dovuto essere il debutto dietro la cinepresa per Matt Damon, cosa resa impossibile in fase di pre-produzione dai suoi impegni. Il progetto è passato in mando a Van Sant, la cui amicizia (anche professionale) nata con il film Gerry (inedito in Italia) e cementata con Will Hunting – Genio Ribelle e Scoprendo Forrester.
Difficile ritrovare la vena poetica che scorreva nelle vene del Van Sant di Elephant, Paranoid Park o del già citato Gerry, nella “terra promessa” Gus sceglie un approccio più diretto, asciutto e, oserei dire, mainstream rispetto al cinema che lo ha reso l’autore che è oggi. C’è impegno sociale ed ambientale, ci sono i personaggi induriti dal lavoro nei campi e dalla fatica causata dalla crisi, ci sono gli spazi aperti delle desolate pianure americane, ma manca quel guizzo che avrebbe potuto elevare il film rispetto a un cinema medio a cui Van Sant non è certo avvezzo.
Gus Van Sant si limita a fare il minimo sindacale, dirige con la mano sinistra a partire da una sceneggiatura apparentemente solida, ma chiusa con un colpo di scena affrettato e superficiale, dimostrando poco interesse nell’andare oltre alla vicenda che viene raccontata. Il tentativo di trasformare le multinazionali “green” in un mostro che promette e non mantiene si perde nel marasma del politicamente corretto, tra i sentimenti di una donna contesa con il giovane rivale ambientalista e lo sguardo vitreo di un anziano scienziato ritiratosi in campagna (un sempre bravo Hal Holbrook) ma che non riesce a vedere un futuro per chi vive in quei luoghi. Forse con Matt Damon alla regia, avremmo visto con un occhio diverso il risultato di questa operazione.
Carlo Prevosti