E’ il 1960. Il Mossad ha scovato Otto Adolf Eichmann in Argentina, dove si era rifugiato dopo la capitolazione tedesca nel 1945. Assente a Norimberga, adesso Eichmann, uno degli ideatori della “soluzione finale”, dovrà rispondere di crimini contro l’umanità davanti a un tribunele a Gerusalemme. La necessità di mostrare al mondo la verità sui campi di sterminio, convince i giudici ad accettare le riprese televisive del processo, a patto che il vulcanico produttore Milton Fruchtman (Martin Freeman) riesca a rendere invisibili le telecamere. Con l’aiuto del regista ebreo, Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia), un documentarista di successo che lavora negli Stati Uniti, ma in grande difficoltà per essere finito sulle liste nere del senatore McCarthy, Fruchtman riesce a mettere insieme una squadra di tecnici che riesce a nascondere le macchine da presa e, al tempo stesso, a riprendere con efficacia le testimonianze drammatiche dei reduci e l’impassibilità di Eichmann. Dall’aprile del 1961, le riprese permettono così al mondo intero di assistere alle scioccanti testimonianze dei sopravvissuti, di cominciare dopo sedici anni a parlare di Olocausto in Europa e negli Stati Uniti.
Ben otto tedeschi su 10 videro ogni settimana almeno un’ora del programma sul processo Eichmann. Ora, con una semplice operazione, aggiungendo a The Eichmann Show di Paul Andew Williams, Il labirinto del silenzio, film che nelle sale italiane l’ha preceduto di circa tre settimane, possiamo farci un quadro storico – o iniziare a comporre un quadro storico – di ciò che deve essere stato per i tedeschi ricostruire gli anni del nazionalsocialismo, prima e durante il conflitto. Il labirinto del silenzio a cui fa riferimento il film di Ricciarelli è la rete di coperture di cui godettero gerarchi nazisti o “semplici” esecutori nell’immediato dopo guerra, scoperta, sul finire degli anni ’50, da un caparbio giovane procuratore, deciso a mettere i tedeschi di fronte a uno specchio per riconoscere i propri terribili errori, cercando risposte scomode alla domanda “chi fu davvero senza colpe?”; il processo Eichmann procede con la certezza della materia trattata, avendo come scenario Gerusalemme e non Monaco o Berlino. Non si tratta di svelare ai figli le nefandezze dei padri, ma di fare giustizia e definire con precisione il limite tra vittime e carnefici. Dunque, alle testimonianze di chi cercò di raccontare e non venne creduto (dramma esistenziale dei reduci che emerge in entrambi i film), il processo Eichmann si avvalse anche delle immagini girate nei campi e che ancora oggi costituiscono la memoria visiva di quell’inferno, almeno dal 1955 in avanti, quando Resnais realizzò l’impressionante documentario Notte e nebbia.
Il regista le seleziona e le incastra perfettamente nel suo film. Oggi di dominio pubblico, usurate da decine di documentari, assumono qui un valore drammaturgico, infilandosi nei racconti allucinanti dei testimoni e contrapponendosi al volto impassibile di Eichmann. Se le fasi che precedono il processo sottolineano la necessità di arrivare a un pubblico planetario per cominciare seriamente a scrivere la storia dell’Olocausto (senza peraltro nascondere la componente spettacolare dell’evento), il processo in sé si attiene a una ricostruzione fedele, mescolando fiction e repertorio. E’ questa la scommessa vinta di Williams, che non impressiona certo per stile registico: affiancare ai protagonisti di allora la Storia in bianco e nero, densa e tragica.
Accanto al tema centrale, Williams e lo sceneggiatore Simon Block seguono l’evolversi dell’impatto emotivo del processo sul regista Leo Hurwitz, che in cabina di regia ordinava i passaggi da una telecamera all’altra, ma ben presto vittima dello sguardo gelido di Eichmann. “Come è possibile che quell’uomo, dopo le atrocità commesse, sia tornato a casa dai suoi bambini come se nulla fosse successo?” – è la questione che ossessiona Hurwitz. Le riprese insistite sul criminale, nonostante il produttore lo inviti a maggiore dinamicità, ingaggiano una lotta a distanza nell’attesa di un cedimento che non ci fu, e che avrebbe smontato la tesi della disumanità. Ovvero che, se in determinate circostanze può emergere la fragilità di un individuo, è possibile anche che una persona apparentemente normale possa trasformarsi in un mostro. E’ un tema aperto, attraverso il quale ancora cerchiamo di spiegare quello ed altri sistematici, scientifici, stermini di massa. Eichmann, non solo rimase indifferente alla violenza delle immagini d’archivio, ma non mostrò nessun segno di pentimento. Vogliamo davvero trovare una spiegazione razionale?
Vera Mandusich
The Eichmann Show
Regia: Paul Andrew Williams. Sceneggiatura: Simon Block. Fotografia: Carlos Catalan. Montaggio: James Taylor. Musiche: Laura Rossi. Interpreti: Martin Freeman, Anthony LaPaglia, Rebecca Front, Andy Nyman. Origine: GB, 2015. Durata: 90′.