Anna è una quarantenne dedita alla famiglia. Una donna che per amore dei figli ha deciso di sopportare il male che la tiene intrappolata: un marito violento e una vita di stenti sono la croce che pesa da sempre sulle sue spalle. Eppure Annarella era stata una bambina spavalda, più incline ai sogni che agli incubi, quei sogni spensierati spazzati via da un ambiente opprimente ma che un lavoro stabile e la possibilità di un vero amore sanno finalmente ridestare, invitandola a riprendere possesso di sé. Per amor vostro, l’ultima fatica di Giuseppe Gaudino recentemente in concorso a Venezia, è la narrazione di questo travagliato risveglio, il risveglio di Anna, perennemente in sospeso tra paura e voglia di vivere. E tuttavia questa non è solo la storia, dalla trama un po’ retorica a dirla tutta, della faticosa emancipazione di una donna. Accanto ad Anna, infatti, ci sono Napoli e le sue mille contraddizioni. Napule mille culure e mille paure apostrofava il cantautore. E le paure ci sono davvero tutte: quelle di una città intrisa di bellezza e di marciume, di amore e malavita. La Napoli dei bambini che giocano in strada e quella della violenza onnipresente, il buio della città sotterranea e la luce ambigua della superfice. Ma se le paure ci sono tutte, i colori ci è concesso di vederli solo in parte. Gaudino sceglie infatti quasi sempre il bianco e nero. Già, perché Anna non sembra più in grado di osservare quei colori. Lo sforzo al quale siamo chiamati è allora quello di seguire l’angosciante scala di grigi in cui si incarna lo sguardo di Anna, grigi bruscamente intervallati soltanto dai colori ancor più angoscianti degli incubi, da quelli più soavi dei ricordi d’infanzia, a quelli finalmente liberatori che sanciscono la catarsi finale.
Vediamo tutto attraverso lo sguardo di Anna, tutto in prima persona, mediato dalla recitazione straordinaria di Valeria Golino che torna, a quasi trent’anni anni di distanza, ad aggiudicarsi a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. E Napoli non è lo sfondo ingombrante che condiziona questo sguardo, ma l’alter ego della protagonista, un prisma che si dirama su più superfici, una città multistrato che riflette una personalità a più dimensioni. C’è Anna legata da un rapporto viscerale ai figli, abituata a lasciar essere le cose come stanno, a non chiedersi da dove provengano i soldi del marito; che prende coraggio e comincia a vedere tutto ciò che finora ha preferito non vedere. C’è Napoli, i suoi abitanti tutti un po’ poeti e un po’ filosofi, le sue usanze e le sue superstizioni: la città dei fuochi d’artificio e dell’usura, la città dei rapporti schietti e delle antiche tradizioni, su tutte quella emblematica che invita a scegliere un teschio conservato negli ipogei del sottosuolo per ricevere grazia e protezione da una povera anima del Purgatorio.
Anna e Napoli dunque, a legarle indissolubilmente la barriera sottile che separa la voglia di riscatto e un’ignavia straripante. Ed è proprio l’ignavia il tema portante, quantomai attuale, del film, la viltà che ci porta ad adagiarci su ciò che gli altri pretendono da noi, quell’atteggiamento di comodo che per Anna si tramuta ben presto in una prigione da cui evadere. L’ignavia, un rassicurante perseverare in ciò che ci capita che, per Dante come per Gaudino, rappresenta soltanto l’ovattata anticamera dell’inferno. Perché del resto il passo dalla stoica accettazione del ruolo che il destino sembra averci assegnato alla rassegnazione di un’esistenza che non sentiamo più come nostra è breve, anzi brevissimo. E se come Anna rischiamo di compiere quel passo verso un’esistenza rassegnata, di convincerci che sia meglio lasciare tutto così com’è, rischiamo di finire per considerarci una “una cosa da niente”, qualcosa che non merita altro che ciò che le è capitato. Minimizzando tutto, finiamo per minimizzare noi stessi. Ci intrappoliamo in una tragicomica corsa al ribasso, in quel male antico abilmente affrescato dalla commedia di Eduardo, non a caso rievocata dalla sceneggiatura: perché se «ci manca il necessario», se «non teniamo che mangiare», se «ci negano il diritto della vita» e sappiamo solo dire «è cosa ’e niente», «a furia ‘e ddicere è cosa ‘e niente siamo diventati cos’e niente». Imparare di nuovo a lanciarsi nel vuoto, magari con un sorriso: questa è la conquista goffamente eroica di Anna, raggiunta attraverso un percorso faticosissimo che la Golino riesce pienamente a restituirci.
Gaudino costruisce così un film ambizioso, in cui la regia si serve dei più disparati stratagemmi formali per esaltare il travaglio di questo percorso: dal bianco e nero, alle inquadrature che seguono sempre lo sguardo, inevitabilmente prospettico, della protagonista, fino alla colonna sonora buffa e surreale come una certa saggezza mediterranea, agli interventi del digitale, davvero un po’ kitsch – e forse immortalare Anna nell’icona della Beata Vergine è troppo –, come kitsch d’altra parte sono gli altarini di una certa devozione napoletana situata al confine con la superstizione. Il risultato è interessante, anche se il film, dobbiamo ammetterlo, si plasma sulle capacità istrioniche dell’attrice e ad esse costantemente si appiglia. Rimane un’opera che incuriosisce, un incrocio coraggioso tra romanzo di formazione e un inconsueto flusso di coscienza cinematografico. Rimane, soprattutto, la possibilità di scorgere l’ignavia imperante che ci circonda attraverso una storia come tante: Anna e Napoli sono l’Italia, almeno una certa Italia, perennemente in bilico tra “è meglio lasciare tutto com’è” e “proviamo a cambiare”.
Luca Scarafile
Per amor vostro
Regia: Giuseppe M. Gaudino. Sceneggiatura: Giuseppe M. Gaudino, Isabella Sandri, Lina Sarti. Interpreti: Valeria Golino, Massimiliano Gallo, Adriano Giannini, Salvatore Cantalupo, Rosaria De Cicco, Elisabetta Mirra, Edoardo Crò. Origine: Italia, 2015. Durata: 110’.