GLI OSCAR MANCATI DEL GRANDE DUCA
Come lui nessuno mai. Nessuno ha mai più cavalcato così. Nessuno ha mai più camminato con la sua epica imponenza e le punte degli stivali convergenti, o portato il cinturone in quella strana posizione, con la fondina spostata sulla natica, anziché sul fianco. Nessuno ha mai più acceso un fiammifero sfregandolo sulla nuda parete di una stalla. Nessuno. Perché non c’è mai stato, né mai ci sarà, un altro John Wayne.
Quando si spense, l’11 Giugno 1979, aveva 72 anni. Si era da poco smorzata l’eco delle polemiche che tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, gli avevano inimicato l’universo liberal degli Stati Uniti. Lui, sostenitore dell’intervento in Vietnam, aveva co-diretto e interpretato il brutto Berretti Verdi. Stile e prosopopea erano le stesse che lo avevano visto protagonista 25 anni prima, quando ad essere promosse da Hollywood erano la Seconda Guerra Mondiale e la bontà della reazione patriottica alla vile aggressione di Pearl Harbor. Il Duca (questo il suo soprannome, e, prima ancora, nomignolo del suo cane) si prestò con la medesima, tenace determinazione alla “missione”. Ma stavolta le fondamenta sociali, etiche e politiche dell’intervento militare erano molto diverse. Non aveva capito, l’Eroe di mille avventure a stelle e strisce, che i tempi erano cambiati. E, insieme ai tempi, l’anima stessa dell’America era mutata. Così come la cultura popolare di un Paese dal cuore spezzato, passato in pochi anni dal Sogno imperiale all’Incubo imperialista. Aveva poco da spartire, il Duca, coi giovani e rampanti puledri della New Hollywood. Il suo incedere, oramai, era impresso nei manuali di Storia. Se ne rese conto lui stesso, regalando alla sua ultima struggente interpretazione (Il Pistolero, di Don Siegel) tutta la dolente consapevolezza di un Mito al tramonto.
E quanto fu miope l’Academy. Gli riconobbe un solo Oscar, per l’irresistibile Rooster Cogburn de Il Grinta. Meritato, certo, ma concesso in maniera tardiva, frettolosa, quasi ci si volesse levare un pensiero. Sottovalutato per tutta la sua (lunga e straordinaria) carriera, il Duca mostra oggi, a coloro che amano il Cinema, di che pasta è fatto un attore. Che non è fatto solo di espressività, ma di carisma, presenza, fisicità, capacità di incarnare il mondo che si interpreta. John Wayne non faceva Cinema. John Wayne era il Cinema. Lo vestiva, lo viveva, lo cavalcava, lo respirava. E ce ne donava l’eterno afflato. Provate a immaginare chiunque altro mentre si volta e si allontana solitario; o mentre solleva al cielo una giovane dicendole “Let’s go home, Debby!”; o mentre cavalca con le redini tra i denti, facendo roteare un Winchester manco fosse una rivoltella. Provateci. Non ci riuscirete. Perché chiunque altro,anche il migliore, sembrerebbe poco credibile o, peggio, caricaturale.
Se poi dovessi proprio circoscrivere la scelta, direi che al Duca sono stati “scippati” almeno tre statuette: per Fiume Rosso, Sentieri Selvaggi e il già citato Pistolero.
In termini shakespeariani, se quella cinematografica è davvero un’Arte, lo dobbiamo ad alcuni maestri, ad alcuni corpi e ad alcuni volti che hanno dato, alle vite narrate, la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Ai primi posti dell’elenco c’è un certo Marion Mitchell Morrison. Meglio noto come John Wayne.
Matteo Inzaghi
IL SOGGETTO E L’ANIMA DEL RACCONTO
È difficile parlare degli Academy Awards senza rischiare di cadere nel semplicistico o nell’ideologico. La premiazione degli Oscar è, infatti, un fenomeno complesso che se da un lato subisce profondamente l’influenza dello star system, dall’altro è capace di dare spazio a opere di grande respiro, dotate di argomenti e linguaggi slegati dai prodotti convenzionali.
Detto ciò, è difficile stabilire una netta separazione tra l’evento mediatico e i contenuti dei film in concorso; di conseguenza, è impossibile parlare degli Academy senza parlare del soggetto.
Il soggetto è una sorta di sinossi, di riassunto della storia da cui s’intende ricavare la sceneggiatura vera e propria, ossia la struttura portante del film. Quando nel 1957 l’Academy decide di affiancare al premio per la “Migliore sceneggiatura originale” quello per la “Migliore sceneggiatura non originale” compie una scelta di metodo importante, orientata non solo a emancipare lo screenplay dall’asservimento al testo letterario, ma a delineare altresì criteri teorici di trasposizione secondo principi compositivi tipici del Cinema americano dell’epoca. Si tratta di un’operazione certamente complessa quando il soggetto in questione è un monumento letterario, ma molto meno rischiosa quando la fonte d’ispirazione è un’opera sconosciuta, la quale, specie se di recente pubblicazione, si offre quale valido termometro degli orientamenti di pubblico e società. Accade così che, dal ’57 in poi, sia che si parli di “Sceneggiatura originale” sia di “Sceneggiatura non originale”, si assista sempre più frequentemente all’affermazione di lungometraggi egemonici capaci di fare man bassa di premi, proprio perché sostenuti da contenuti culturalmente vincenti. In realtà, è difficile stabilire se sia il soggetto di un film a scegliere l’Oscar o l’Oscar a scegliere il soggetto. Forse le due cose insieme, a seconda delle circostanze e del periodo storico.
Non si può negare, ad esempio, che Platoon di Oliver Stone – soggetto originale – abbia dato corso a un modo nuovo di guardare la guerra del Vietnam, cui avrebbe fatto eco, qualche anno più tardi, Balla coi lupi – soggetto non originale – spostando lo sguardo dalla spietatezza dei Marines nei confronti dei civili vietnamiti a quella dei soldati blu nei confronti degli nativi americani, così da superare, in sol colpo, tanto il machismo reaganiano dei vari Rambo e Schwarzenegger, quanto l’antimilitarismo, visto dalla sola prospettiva americana, de Il Caccitore di Cimino. Discorso inverso va fatto per pellicole più recenti come Lincoln e The Batler, i cui contenuti improntati sull’emancipazione dei neri americani non possono essere considerati a parte rispetto al successo politico del presidente Obama; o per l’antipsichiatrismo anni ’70 di Qualcuno volò sul nido del cuculo, capace di battere in concorso un capolavoro assoluto come Barry Lyndon; e così pure per il romanticismo laccato de La mia Africa, sempre di moda tra il pubblico, che nel 1986 riesce a prevalere su Il bacio della donna Ragno.
Da che mondo è mondo la moda influenza l’arte e l’arte la moda. Non ci trovo nulla di scandaloso in questo, al contrario, ciò mi affascina ogni volta, in particolar modo quando tra il marasma di contenuti leggeri o intellettualoidi, si assiste alla nomination di soggetti straordinari, ricchi di spunti teorici, come Truman Capote o Re della terra selvaggia, tanto per citare qualche titolo.
La verità è che gli Academy Awards sono un fenomeno squisitamente Pop, quel Pop che Andy Warhol ci ha insegnato ad amare, in cui il prodotto commerciale e il gusto del pubblico ammiccano narcisisticamente l’un l’altro, dando luogo a un’estetica sempre nuova, disciplinata dal rigore compositivo della sceneggiatura. Ne è una prova evidente The Social Network, un film che forse non sarà un capolavoro, la cui affermazione tuttavia non si esaurisce nell’attualità del fenomeno Facebook, ma trova la sua ragion d’essere nel sofisticato impianto narrativo costruito su un susseguirsi incalzante di flashback dallo straordinario impatto emotivo. È come dire: datemi un argomento d’interesse e vi costruirò sopra un’inebriante macchina da sogno in grado di trascenderlo.
Se continuiamo a essere affascinati dall’America e dal suo Cinema è proprio perché, nonostante tutto, sono entrambi capaci di sorprenderci, in virtù di quell’eterna interdipendenza tra spettatore e rappresentazione, dal cui reciproco rispecchiamento, realistico e parodistico a un tempo, sfugge inevitabilmente un iridescente raggio di pura arte.
Manuel Farina
VESTIRE LE ANIME DI CARTA
Capita di esprimere un’opinione sulle persone a prima vista. A condizionarci è spesso ciò che ci appare davanti, incaselliamo gli sconosciuti in determinate categorie mentali, cercando di coglierne la personalità passando attraverso uno dei pochi aspetti del nostro Io che può emergere a colpo d’occhio: il modo di vestire. Scegliere cosa indossare non è semplicemente un’esigenza naturale, ma anche e soprattutto un fattore sociale che veicola il nostro desiderio di appartenere ad una determinata comunità. Allora cerchiamo di assecondare il nostro gusto ad un’idea di noi stessi che crediamo possa essere rappresentativa, di avvicinarci ad un modello di bellezza. Proprio di bellezza infatti si nutre l’arte cinematografica, considerata per molto tempo una forma artistica oculocentrica; ed allora vestire un personaggio cinematografico non è per i costumisti altro che un’occasione per creare un archetipo. Non si tratta semplicemente di coprire un corpo che imita una determinata tendenza, ma piuttosto di essere tanto bravi da consegnare al nostro sguardo uno stile da ammirare e dal quale farsi dolcemente influenzare.
Se la moda sembra ai più un’arte effimera, intangibile ed incontrante nel tempo, il cinema riesce ad avvicinarla alle persone per la sua capacità di durare nel tempo, di cristallizzarsi in esso e di diventare una preziosa gemma nell’immaginario collettivo. Quasi nulla resta dei corpi/manichino di modelle che, sfilando per pochi minuti hanno cercato di rappresentare lo spirito di una determinata epoca. Ma ben altro potere evocativo hanno certi film, che ci regalano qualcosa di vivo e vibrante. Impossibile non associare la Hollywood degli anni ’50 alle piume ed alle pellicce portate da Gloria Swanson nel celebre film di Billy Wilder Viale del Tramonto. Una diva incatenata ad un glorioso passato fatto di sfarzo e ruggente leggerezza, oggi intonacata da uno spesso strato di nostalgia.
Nel processo di creazione non si può quindi non considerare il lavoro della grande costumista Edith Head importante come quello di scrittura o di recitazione. La scrittura dona l’anima ad un personaggio e l’attore gli regala fisicità, ma il costumista ne crea l’aspetto, fa convergere l’idea dello sceneggiatore con la visione del regista. Un processo di coordinazione che regala al pubblico qualcosa di unico e meraviglioso. Edith Head nella sua lunghissima carriera ha collezionato ben 35 candidature all’Oscar, aggiudicandosi ben 8 statuette. Questa donna straordinaria è riuscita a capire lo spirito di quelle che, anche grazie a lei, sarebbero divenute icone cinematografiche. Una su tutte: la Grace Kelly de La Finestra sul Cortile. Quel vestito venuto da Parigi che doveva rappresentare l’eleganza che incontra l’audacia, fu sicuramente uno dei lavori più azzeccati della Head. La cornice adatta per quell’opera d’arte vivente che era Grace Kelly.
Sicuramente un posto di prestigio nella storia degli Oscar, per quanto concerne la categoria Miglior Costumi, è riservato ai film d’epoca. Questo genere di pellicole presenta ai costumisti difficoltà non solo tecniche, ma soprattutto interpretative. Dovendo infatti entrare in contatto con un tempo perduto è fondamentale che la simbiosi mentale tra costumista e regista sia completa. Una delle menti contemporanee più geniale in questo campo è sicuramente Milena Canonero, che ha saputo adattarsi con assoluta maestria sia al rigore storico perseguito da Stanley Kubrick per il suo capolavoro Barry Lyndon (che valse alla Canonero il suo primo Oscar nel 1976), sia ad un progetto molto più innovativo ed originale, ovvero Marie Antoinette di Sofia Coppola. Fu questo sicuramente uno dei processi creativi più particolari della storia del cinema contemporaneo. L’idea su cui si basava il film era creare una continuità tra la nobiltà del Settecento con la gioventù odierna; l’intento della regista statunitense di avvicinarsi ad un mondo completamente opposto al suo, di approfittare del suo sguardo vergine e privo di eccessive sovrastrutture storiche e culturali per raccontare una delle figure più controverse della storia europea. Vengono eliminati i pesanti colori spenti usati per le rappresentazioni ritrattistiche dell’epoca, per far entrare i colori pastello, il rosa shocking, il pistacchio ed il celeste.
Ogni personaggio del film sembra far ruotare la propria vita in un turbinio di futilità, con il quale si cerca di colmare la noia ed il vuoto esistenziale. La giovane regina di Francia prova a trovar un modo di sentirsi meno estranea in un universo antico, che è costretta a chiamare casa, tentando di renderlo simile al suo animo gioviale e vezzoso. Allora un elemento fuori posto si fa spazio nel processo di ricostruzione storica: un paio di Converse azzurre tra le altre scarpe di Maria Antonietta. Non si tratta di un’imprecisione della costumista e della Coppola, ma di un simbolo che indica il Settecento come lo specchio della mentalità moderna.
La storia degli Oscar è piena di talenti geniali che hanno saputo vestire le anime di carta create da registi e sceneggiatori con autentiche opere d’arte che hanno completato il processo artistico di un film. In certi casi si tratta di sguardi completamente nuovi ed innovativi, si pensi al lavoro straordinario di Eiko Ishiota che riuscì a rileggere il mostro creato da Bram Stoker alla luce del suo mondo orientale per il film Dracula del 1992, altre volte invece si preferisce premiare lavori più classici, come avvenne l’anno scorso per Jacqueline Durran, costumista del film di Joe Wright Anna Karenina.
Aldilà dei premi comunque quella della creazione dei costumi è certamente un’arte finissima, che a volte sa creare degli stilemi di bellezza che arricchiscono il cinema. In fondo, come potremmo pensare a Colazione da Tiffany senza richiamare alla mente il vestito indossato da Audrey Hepburne, raffinato e potente simbolo di un’ineffabile e magica eleganza?
A fare la storia non sono quindi certamente solo i premi Oscar, ma volendo azzardare un pronostico per le prossime premiazioni dell’Academy, si può già dire che uno dei progetti più interessanti dal punto di vista del lavoro sui costumi è sicuramente American Hustle di David O. Russell. Michael Wilkinson ha avuto il merito straordinario di creare per ogni personaggio un guardaroba tracotante, bislacco e volgare al punto giusto, che fa da contrapposto ad una piccolezza d’animo assoluta ed ad un’ambizione ingiustificabile in un mondo che sembra appartenere ai furbi. Nonostante la competizione quest’anno sia molto agguerrita, nominata anche Catherine Martin che ha saputo far rivivere i ruggenti anni Venti ne Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, sicuramente i costumi di American Hustle resteranno impressi a fuoco nella mente degli spettatori, vittoria o no.
Giulia Colella
QUALE MIGLIOR FILM
Strana storia, quella degli Oscar. Anzi, stranissima e segreta. Per qualcuno sarebbe tutta da riscrivere, per qualcun altro da dimenticare, per alcuni (come il sottoscritto) innanzitutto da riscoprire. Sì, perché l’idea che abbiamo elaborato di Hollywood è ormai quella di una (stitica?) macchina di film, che premia in base a degli accordi, alle strette di mano, agli unguenti lubrificatori in una logica non dissimile dalle lobbies di Washington, o quelle di Sanremo. Eppure non è sempre stato così. O forse lo è stato, ma in un’epoca comunque diversa dall’attuale, in cui i concordati sottobanco riconoscevano la qualità a discapito della quantità di attori, soldi e convenzioni. D’altronde erano altri tempi: non erano i film a essere premiati, ma il cinema; non erano le case produttrici a finanziare una pellicola, ma i grandi produttori. Di tutto questo oggi non c’è più traccia. Così molte cose sono rimaste, ma altre sono andate definitivamente perdute nell’oblio. Paradossale, anche considerando che basterebbe esaminare i titoli insigniti della statuetta al miglior film (gli insigniti e i pretendenti al trono, per esattezza) per rivelare tutto un mondo sconosciuto di capolavori: chi ha mai visto La mia via di Leo McCarey (1945) alzi la mano. Nessuno, vero? Non c’è da stupirsi, soprattutto perché tra i candidati allo zio Oscar in quell’anno cruciale ci furono Angoscia di George Cukor con Ingrid Bergman (ispirato chiaramente a Rebecca di Alfred Hitchcock, vincitore nel 1941), e La fiamma del peccato di Billy Wilder. McCarey vinse con un film neorelista all’americana quando il neorealismo in Italia non aveva ancora raggiunto le sue massime vette. Wilder si rifece l’anno successivo, con Giorni perduti, uno dei primi drammi specificamente centrati sul problema dell’alcolismo, battendo Io ti salverò di Hitchcock. Mentre William Wyler, che già aveva ottenuto l’agognatissima onorificenza nel 1943 con La signora Miniver, marciò vincitore per la seconda volta nel 1947 con I migliori anni della nostra vita, sulla tragedia dei reduci e sul loro reinserimento nella società civile. L’America era appena uscita dalla guerra, si respirava ancora l’odore delle ferite, delle mutilazioni fisiche e mentali, della disperazione e della follia. Non è un caso che Hollywood abbia deciso di premiare alcune pellicole di “interesse sociale”, come Barriera invisibile (1948) di Elia Kazan sull’imperante maccartismo, e Tutti gli uomini del re (1950) di Robert Rossen sulla corruzione politica. Peccato per il primo film sul disagio mentale, La fossa dei serpenti di Anatole Litvak, sconfitto nel 1949 dall’Amleto di Laurence Olivier, e costretto ad accontentarsi di un Oscar consolatorio al miglior sonoro. Ma Hollywood ama sempre il baccano, i lustrini, i balletti e gli effetti speciali: a quelli non ci rinuncia per principio. Se è vero, come insegna Robert Altman (e dopo di lui, o insieme a lui, Obama) che in America si diventa presidenti cantando, è proprio dalla fastosità delle scenografie che i giurati si lasciavano ammaliare. È forse per questo che nei primi anni cinquanta lo zio Oscar venne assegnato a Un americano a Parigi (1952) di Vincente Minnelli, Lo spettacolo più grande del mondo (1953) di Cecil B. DeMille e Il giro del mondo in ottanta giorni di Michael Anderson nel 1957 (niente riconoscimenti per Il gigante di George Stevens con James Dean, che guadagnò soltanto una statuetta per la miglior regia). Nel 1956 fu premiato tanto con l’Oscar al miglior film quanto con la Palma d’oro a Cannes Marty, vita di un timido di Delbert Mann, con l’italianissimo Ernest Borgnine: un film stranissimo, incentrato sulla banale esistenza di un macellaio affetto da timidezza maniacale, che troverà l’amore grazie a una ragazza ancora più riservata e goffa di lui. La storia di Hollywood è così: svergognata, inattendibile e sorprendente. Scoppia(va) di vita, di luci abbaglianti, di cascami e velluti e paillette, ma senza mai rinunciare a quel tocco di imprevedibilità che la portava sovente a rompere le convenzioni, assegnando compensi e gratifiche a pellicole in qualche modo perdutesi per strada. Nessuno penserebbe che nel 1968 La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison abbia soffiato la statuetta a Il laureato di Mike Nichols; mentre Oliver! di Carol Reed, vincitore dell’edizione successiva, sapeva più di premio alla carriera che di giusto coronamento. D’altronde Hollywood aveva snobbato Il terzo uomo con Orson Welles, che non era nemmeno stato selezionato tra gli aventi diritto. Un errore non da poco, al quale bisognava assolutamente porre rimedio. Infatti è del 1970 la vittoria meritatissima di Un uomo da marciapiede, di John Schlesinger, con buona pace di Butch Cassidy di George Roy Hill (che si rifarà quattro anni più tardi con La stangata) e dell’ottimo musical diretto da Gene Kelly, Hello, Dolly!
Marco Marchetti
UNA QUESTIONE TRANSALPINA
Finiscono le Olimpiadi, inizia l’attesa per la cerimonia degli Oscar 2014. Partiamo proprio dal medagliere per raccontare il premio al miglior film in lingua straniera (Academy Award for Best Foreign Language Film). E qui, orgogliosamente in testa, troviamo l’Italia con 10 statuette vinte in poco più di sessant’anni. A seguire nella classifica gli odiati francesi distanziati di una statuetta: spocchiosi cugini d’oltralpe per una volta inchiodati a mangiar la nostra polvere di celluloide con “soli” 9 Oscar per il miglior film straniero. La vittoria del favorito Paolo Sorrentino con La Grande Bellezza ci consentirebbe di allungare le distanze in classifica portando il bottino totale a 11 statuette. Au revoir Francia. Dietro l’accoppiata transalpina il vuoto: con quattro statuette troviamo Spagna e Giappone, ultima vittoria rispettivamente con Mare dentro di Alejandro Amenábar e Departures di Yōjirō Takita (2009).
I membri dell’Academy hanno sempre dimostrato di apprezzare il nostro cinema, premiando l’irripetibile stagione neorealista con due Oscar speciali a Vittorio De Sica: nel 1947 per Sciuscià e nel 1949 per Ladri di biciclette. Dall’istituzione del premio avvenuta poi nel 1950 non è mai mancato il gradimento per i film italiani, privilegiando le pellicole che raccontavano un’Italia mitica, irreale, il sogno della dolce vita o le fatiche pre e post belliche.
Anche gli ultimi Oscar per i film stranieri vinti da italiani guardano al nostro passato. Quindici anni fa l’ultima vittoria con La vita è bella di Roberto Benigni da una sceneggiatura del recentemente scomparso Vincenzo Cerami. La vita è bella racconta la storia di Guido, cameriere ebreo di Arezzo che durante la guerra mondiale viene deportato con il figlio in un campo di concentramento. Il film, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, è anche l’unico film italiano ad aver ricevuto la nomination all’Oscar come miglior film dell’anno. Sempre ad passato mitico guarda il premio 1991 assegnato sorprendentemente a Mediterraneo di Gabriele Salvatores che riuscì a battere nientemeno che Lanterne rosse, il film più celebre del cinese Zhang Yimou. Italiani brava gente inviati in un’isola greca per presidiarla militarmente stringono un’inaspettata amicizia con gli abitanti dell’isola. Due anni prima Giuseppe Tornatore vinceva la statuetta raccontando il ritorno di un affermato regista nei luoghi della propria infanzia, in un magico paesino della Sicilia e del suo Nuovo Cinema Paradiso, luogo di aggregazione di un’Italia che non aveva ancora scoperto la cattiva maestra televisione.
In questa carrellata all’indietro arriviamo all’ultimo successo del pluripremiato Federico Fellini: nel 1974 conquistò il suo quarto Oscar per Amarcord, una rievocazione nostalgica della gioventù vissuta durante ventennio fascista. Fellini riceverà nel 1993 poi il premio alla carriera.
Anche Vittorio De Sica porta a casa in quegli anni la sua quarta statuetta con Il giardino dei Finzi Contini. Il film, già vincitore del prestigioso Orso d’Oro a Berlino e premiato con l’Oscar nel ’71, è ambientato nella città di Ferrara alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale e racconta le vicende della famiglia ebraica dei Finzi-Contini.
Per trovare un film premiato che parli della contemporaneità italiana dobbiamo tornare al 1970: Elio Petri dirige Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uno dei massimi capolavori del cinema italiano di denuncia con uno strepitoso Gian Maria Volonté ispettore capo della omicidi.
A chiudere questo lungo elenco nel 1964 Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica e l’irripetibile triplete felliniano: La strada (1956), Le notti di Cabiria (1957) e 8½ (1963).
Attendiamo la proclamazione del vincitore 2014 per capire se sarà La grande bellezza l’undicesimo oscar made in Italy. Nonostante l’ambientazione contemporanea il film racconta una città ancora eterna, dove volgari ed eccessive figure notturne di giorno lasciano spazio alla grande bellezza di scalinate, parchi, sculture e piazze. Un’immagine perfettamente coerente con quanto i membri dell’Academy hanno dimostrato di amare in questi 60 anni di premio per il miglior film straniero.
Massimo Lazzaroni
PROTAGONISTI MASCHILI
Raccontare il premio Oscar al miglior attore protagonista significa scoprire curiosità saporite e coincidenze sorprendenti. Una particolarmente intrigante riguarda i vincitori del 1963 e del 2006. Otto anni fa vinse il recentemente scomparso Philip Seymour Hoffman per la sua magnifica interpretazione di Truman Capote in A sangue freddo. Il racconto di chi è stato questo attore lo abbiamo già fatto e vi consigliamo la lettura di quell’articolo, pubblicato appena dopo la sua morte prematura e nel pieno di una carriera folgorante.
Il fatto è che tra gli amici di Truman Capote che appaiono nel film c’è anche una certa Harper Lee, autrice del meraviglioso romanzo “Il buio oltre la siepe”. Chi vinse l’Oscar per il miglior attore nel 1963? Gregory Peck per la sua interpretazione nel riadattamento cinematografico del romanzo della Harper Lee. Sembra proprio che questi due scrittori abbiano portato fortuna a coloro che li hanno, in un modo o nell’altro, portati sul grande schermo. Una fortuna che, disgraziatamente, non ha risparmiato Philip Seymour Hoffman dal disagio per una vita complicata.
Scorrendo le statistiche salta subito all’occhio un altro nome, quello di Daniel Day Lewis. E’ l’unico ad aver vinto tre premi come miglior attore protagonista, visto che Jack Nicholson, tre Academy Award, ne ha vinto uno come non protagonista. Oltre al dato numerico, c’è quello relativo allo spessore dei personaggi interpretati da Daniel Day Lewis. Nel 1990 vinse con Il mio piede sinistro, uno dei viaggi più garbati e profondi nel mondo dell’handicap che il cinema abbia saputo proporre. Ma la sua interpretazione ne Il petroliere, che li valse la seconda statuetta nel 2008, ha davvero qualcosa di incredibile: riesce a dare vita ad un personaggio profondamente negativo, lurido, la cui morale si sbriciola davanti alla sete di potere e denaro. Cinque anni dopo, nel 2013, l’attore si trasforma per l’ennesima volta indossando le vesti di Abramo Lincoln nel film di Steven Spielberg, chiamato a interpretare un personaggio diametralmente opposto al precedente. Non solo per il suo ruolo nella storia degli Stati Uniti d’America, ma anche per i principi etici che ne hanno guidato la condotta.
Ci sarebbero mille altre storie da raccontare. Non si può non citare Sean Penn, vincitore nel 2004 (Mystic River) e nel 2009 (Milk), o Robert De Niro, che vinse un oscar come miglior attore in Toro Scatenato (1981) ed uno come non protagonista ne Il Padrino parte II (1975). E parlando de Il Padrino viene alla memoria il clamoroso rifiuto del premio vinto da Marlon Brando nel 1973.
Leggere la lista dei vincitori del premio Oscar alla migliore interpretazione maschile è come fare un viaggio nella storia del cinema americano (e non solo). E’ un modo luminoso e intrigante per riportare alla memoria attori e personaggi che sono entrati nella nostra memoria collettiva.
Non resta che attendere i responsi di quest’anno. Senza aver potuto visionare tutti i film candidati, l’interpretazione di Matthew McConaughey ne Dallas Buyers Club ci ha profondamente colpito. Il 2 marzo è vicino. Pazientiamo ancora qualche giorno.
Alessandro Barbero
NON SOLO DIVE
Le donne nella storia del cinema, dalle prime dive del muto, ieratiche e malinconiche, fino alle odierne star di Hollywood, complesse ed enigmatiche, hanno da sempre rappresentato quei valori di bellezza, glamour ed eleganza che le hanno rese vere e proprie icone del grande schermo. Desiderabili, carismatiche, le donne del cinema sono così entrate nell’immaginario collettivo per elevarsi a simboli capaci di evocare modelli a cui rivolgersi. Fin dalle origini la presenza di attrici in grado di attrarre con il loro fascino e catturare con la loro innata avvenenza ha sviluppato quel contorto meccanismo di idealizzazione, alimentato oltremodo dalla cultura di massa del ‘900, che spesso ha rischiato di far capitolare anche le dive più acclamate. Ben oltre il luccichio dei riflettori e il rosso dei tappeti, le donne del cinema si sono imposte come interpreti immortali, muse ispiratrici dei registi che le hanno dirette o fedeli rappresentanti della loro epoca. Tra i numerosi premi e riconoscimenti in ambito cinematografico, l’Oscar come Miglior Attrice Protagonista è sicuramente il più ambito, consacrazione definitiva di un talento che non potrà essere dimenticato. Fra tutte Katharine Hepburn, è lei ad essersi aggiudicata il maggior numero di statuette, con quattro Oscar è entrata di diritto nel firmamento della settima arte grazie alla sua raffinata ironia e ad una lunga carriera che le ha permesso di conquistare il primo Oscar nel 1934 con La gloria del mattino di Lowell Scherman e l’ultimo quasi quarant’anni dopo, nel 1982, con Sul lago dorato di Mark Rydell.
Ad ottenere due Academy Awards come best actress è Ingrid Bergaman, radiosa bellezza delle gelide terre del nord, così espressiva e allo stesso tempo delicata, rubò il cuore di Rossellini che la volle nei suoi film neorealisti, tanto duri ed amari. L’Oscar lo ottenne però con Angoscia di George Cukor del 1945 e dodici anni dopo nei panni della famosa principessa della dinastia dei Romanov nel film di Anatole Litvak, Anastasia.
Altra figura intramontabile è l’attrice britannica Vivien Leigh. Affascinata dalla lettura del popolare romanzo di Margaret Mitchell, Gone with the wind, nel 1938 chiese al suo agente di segnalarla al produttore David O. Selznick che alla fine la scelse per interpretare l’eroina capricciosa Rossella O’Hara. Il film collezionerà una serie infinita di Oscar tra cui quello per la migliore attrice protagonista che verrà assegnato proprio a Vivien Leigh. La sua recitazione, intrisa di appassionante emotività, le varrà un secondo Oscar per il ruolo di Blanche Debois in Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan. Ed ancora, Olivia de Hallivand, compagna di riprese della Leigh in Via col vento, anche lei britannica e con la medesima esperienza teatrale alle spalle, riuscì ad aggiudicarsi due Oscar: nel 1947 con A ciascun il suo destino di Mitchell Leisen e nel 1950 con L’ereditiera di William Wyler. Già nel 1942 era ad un passo dall’ottenere l’ambita statuetta, ma le fu strappata dalla sorella Joan Fontaine grazie alla sua interpretazione in Il sospetto, questo episodio incrinò ancor di più il rapporto tra le due, già compromesso da un’aspra rivalità.
Non era bella, non era attraente, ma era dotata di uno charme unico, Bette Davis con i suoi occhi sporgenti ed ammalianti consolidò il suo successo anche grazie ad un talento sorprendente. Vinse il suo primo Oscar nel 1935 con Paura d’amare di Alfred E. Green e poi nel 1939 con La figlia del Vento di William Wyler. Occhi viola e profondi invece per Elizabeth Taylor, la sua bellezza l’ha sempre preceduta, ma a differenza della femme fatale Marilyn Monroe, è stata in grado di veder riconosciute le proprie doti recitative, nel 1961 con Venere in visone di Daniel Man e nel 1967 con Chi ha paura di Virginia Woolf?. Infine come non nominare la super celebrata Meryl Streep, una carriera luminosa costellata di trionfi, detentrice di un record ancora insuperato con ben 17 candidature agli Oscar e due vittorie, nel 1983 con La scelta di Sophie di Alan J. Pakula e il più recente nel 2012 con The Iron Lady di Phylida Lloyd in cui indossa i panni dell’inossidabile Margaret Thatcher.
Jenny Rosmini
CON LA CARTA SI SOGNA MEGLIO
Quando c’era Walt Disney vinceva sempre Walt Disney. Per partire, bisogna partire da qui.
Per tutta la vita Walt Disney ha dominato la notte degli Oscar. Dominato. Letteralmente. In quarant’anni di carriera ha collezionato cinquantanove nomination. La persona che ne ha avute di più dopo lui è John Williams. Quarantanove nomination. Williams è un compositore. Ha scritto le colonne sonore per decine di film, alcuni anche famosissimi. I temi di Guerre stellari e de Lo squalo, per capirci, li ha scritti lui. Praticamente una nomination all’anno per una fila interminabile di anni. So che cosa state pensando. State pensando che non c’è poi molta differenza tra cinquantanove e quarantanove. Può darsi. Sapete quante statuette si è portato a casa Williams su quarantanove nomination? Cinque statuette. Walt Disney ventidue. Più quattro onorari. In tutto fanno ventisei Oscar. Ventisei.
Il regista che ha vinto più Oscar di tutti, Billy Wilder, ne ha vinti sette. Per dire.
Eppure, anche se ne ha vinti più di tutti, Walt Disney non è mai salito sul palco per ritirare l’Oscar per il miglior film d’animazione. Non poteva. Perché la categoria per il miglior film di animazione, quella per i lungometraggi, è stata istituita nel 2002, e cioè trentasei anni dopo la sua morte. Ma il vecchio Walt non avrebbe comunque motivo di lamentarsi. Perché a partire dal secondo dopo guerra e per molto, moltissimo tempo il Cinema di animazione è stata roba sua e solamente sua. Per decenni, i lungometraggi di Disney sono stati praticamente gli unici ad entrare nelle sale. I motivi sono più di uno. C’entrano i soldi (un sacco di soldi), e una capacità di distribuzione del proprio prodotto unica al mondo. Ma soprattutto c’entra uno straordinario talento nel saper creare e mantenere il consenso del pubblico. Così Walt Disney ha saputo portare il proprio studio ad una condizione talmente dominante da assumere i contorni del monopolio. E allora verrebbe da dire che è questo il motivo per il quale agli Oscar, per settantacinque anni, non è esistita la categoria per il miglior film d’animazione: non si organizza una gara se c’è un solo concorrente.
L’istituzione della categoria nel 2002 è perciò importante per molte ragioni. Per esempio ci dice che il mondo dell’animazione non è più lo stesso di quando sul trono sedeva re Walt. E’ stato un cambiamento radicale, dai tempi lunghi, e che ha avuto uno snodo cruciale alla metà esatta degli anni novanta. Il 19 novembre 1995, la Pixar di John Lasseter presenta Toy Story in anteprima mondiale a Los Angeles. E’ il primo lungometraggio d’animazione interamente in computer grafica. A fare di questa data un punto di svolta sono soprattutto due cose. La prima è una questione tecnica: non è che non fosse possibile fare animazione in computer grafica, certo che si poteva fare. Ma i corpi animati in questo modo avevano dei movimenti goffi e freddi, artificiali. Niente a che vedere con l’animazione tradizionale, che era sì molto costosa e molto lunga, ma insomma, era tutta un’altra cosa. C’era una distanza da colmare. Con Toy story, John Lasseter e i suoi hanno creato e, in un certo senso, reso disponibile la tecnologia per colmare quella distanza. La seconda è una questione di soldi. Con un incasso di 356 milioni di dollari, Toy Story è stato un successo commerciale enorme. Il più alto di tutto il 1996.
Sotto molti punti di vista, Toy Story è stato nel 1995 quello che Biancaneve e i sette nani è stato nel 1937: una scommessa quasi folle, vinta grazie allo straordinario talento dei propri creatori. Un film che ha cambiato il modo di fare animazione, diventando contemporaneamente un grande successo economico. Ci vuole un Oscar per film del genere.
Alla cerimonia del 1996, l’Academy assegna a John Lasseter un Oscar per meriti speciali. Un Oscar fuori categoria, si potrebbe dire. Esattamente come aveva fatto nel 1939 con Walt Disney per Biancaneve e i sette nani. Tre anni dopo, la Dreamworks di Spielberg, realizza il suo primo lungometraggio d’animazione: Il Principe d’Egitto. Molti altri film, da diversi studios, seguiranno. E la maggior parte sarà in computer grafica. Una nuova strada è stata tracciata.
Nel 2002 le opere in corsa per gli Oscar sono tre. Fra quelle tre c’è anche un film Disney. C’è ma non vince. Dopo lunghissimi anni a dominare la scena del lungometraggio d’animazione senza il lustro di una statuetta a celebrarne lo strapotere, ecco che il primo Oscar finisce alzato al cielo dalle mani un concorrente. Per di più il vincitore è Shrek, un film della Dreamwors che ha il suo punto di forza in un certo tipo di umorismo dalla caratteristiche marcatamente antidisneyane. Se fosse stato ancora vivo, al vecchio Walt sarebbe venuto un colpo.
Ma la Disney rimane la Disney anche senza il suo strabordante fondatore. Così, come ad ogni rivoluzione segue un periodo reazionario, non passa molto tempo prima che la Disney ristabilisca il proprio primato nelle notti dell’Academy, tornando a vincere con regolarità quasi annuale. E poco importa se per farlo ha dovuto fagocitare il suo avversario più temibile, la Pixar. Dopotutto, comprare chi non si può battere ha sempre fatto parte della sua filosofia. Rimane giusto il tempo per un paio di sussulti, con Wallace e Gromit (2006) e, soprattutto, con La città incantata (2003).
Il capolavoro di Hayao Miyazaki è probabilmente il punto più alto finora raggiunto nella storia degli Oscar al miglior film di animazione. Ma non solo. E’ anche quanto di più lontano dalla visione di Disney sia mai stato premiato dall’Academy. E non solo perché la distanza da quel mondo nasce da un’indipendenza autoriale, mentre Shrek è antidisneyano per reazione. Ma soprattutto perché nelle opere di Miyazaki, e ne La città incantata in particolare, è evidente il superamento di quel limite che rimane la più pesante eredità di un certo modo di pensare al cinema di animazione. E cioè che i film di animazione siano prodotti per bambini, e che solo a loro siano destinati. Un’eredità a cui nemmeno la rivoluzione messa in atto dalla Pixar ha saputo sottrarsi. Almeno non ancora. Non completamente. In Miyazaki questo limite non è mai esistito. Da questo assunto deriva una serie di scelte che pongono il suo cinema su di un piano completamente differente. Gli Oscar, colpo di scena, hanno saputo accorgersene nel 2003. Quattro anni dopo è ricominciata la marcia trionfale della Disney. Dal 2007 al 2013 la Disney-Pixar ha vinto sei statuette su sette. Il vecchio zio Walt è tornato sul trono.
Quest’anno un nuovo film di Miyazaki, probabilmente il suo film d’addio , sarà di nuovo in gara per il premio più ambito. Le ragioni per sperare in un ultimo riconoscimento sono tante e varebbe la pena raccontarle. Ma non lo faremo qui e adesso. Sono ragioni che c’entrano con l’arte di Miyazaki, con la sua vita e con il Paese in cui vive. E che con la notte degli Oscar non hanno poi molto a che fare. Sono un’altra storia.
Però un giorno ve la racconteremo, perché è una storia bellissima. Promesso.
Matteo Angaroni
EMOZIONI DOC
Tutto vero, non è detto però. Il documentario si ribella costantemente alle categorizzazioni, alle posizioni ideologiche, alle volontà costrittrici che ne segnano di tanto in tanto i confini etici. Niente equazioni. Togliamoci dalla testa che documentare il vero voglia dire sempre restituirlo intatto, come se il passaggio attraverso l’obiettivo non lasci un segno sulla realtà raccontata, persino nel documentario naturalistico alla James Algar che vinse ben tre Oscar tra il ’53 e il ’58. Basta scorrere le cinquine anno dopo anno per rendersi conto di come l’Academy abbia accolto tipologie di narrazione diverse, dal reportage alla ricostruzione di fatti storici, dal ritratto familiare ai risvolti perturbanti di un personaggio noto (Alì, al limite anche Sugar Man), dove la differenza non la fa sempre la portata (epica) del racconto, ma il come ci arriva sullo schermo. Penso a due lavori recenti che ricostruiscono eventi parecchio diversi come la strage di Columbine e il passaggio tra le Torri Gemelle su una fune tesa a più di 400 metri di altezza. Michael Moore (Bowling for Columbine, 2002) e James Marsh (Man on Wire, 2008) ripercorrono fatti straordinari mescolando con sapienza e furbizia le classiche interviste, filmati preesistenti, materiali d’archivio, ricostruzioni più o meno dichiarate, ma talmente ben congegniate da confondersi e sottrarsi al giudizio di chi sospende l’incredulità per interrogarsi sul confine tra vero e posticcio. Narrazioni che mutuano dai film di finzione l’impianto drammaturgico, per trasformare l’informazione in emozione. Dici niente! Marsh ti ci porta sulla fune col funambolo Petit e in sala devi aggrapparti alla poltroncina per non sentire il pericolo, tanto si soffre di vertigini.
I registi che arrivano in cinquina devono avere uno sguardo talentuoso se pescano nella normalità lo straordinario che nessun altro vede. Perché non ci sono sempre stragi nelle università o eroi acrobati che sfidano il vuoto. Nel 2003 Una storia americana avrebbe potuto vincere l’Oscar con una storia di pedofilia nel chiuso delle mura domestiche di una famiglia apparentemente normale. Peccato fosse l’anno di Errol Morris che aveva raccontato la guerra (non solo fredda) attraverso l’ambigua personalità di Robert McNamara (The Fog of War, 2003), compendio esaustivo (?) di ciò che si nasconde dietro un intervento militare, un progetto visivo di rara intelligenza e sensibilità estetica.
Raccontare dunque la Grande Storia contemporanea sulle spalle di un personaggio che si è compromesso con i suoi ingranaggi o saltare su treni locali, percorrendo binari secondari, per attivare chiavi di lettura della Storia stessa. Per tre anni consecutivamente (dal ’97 al ’99) la statuetta è andata a film documentari che rinviavano a Israele o alla questione ebraica: The Long Way Home di Mark J. Harris, Gli ultimi giorni di James Moll e Un giorno a settembre di Kevin Macdonald, ovvero storie di rifugiati ebrei nel dopoguerra, gli orrori dei campi di sterminio, il massacro di Monaco, quando un commando palestinese sequestrò e uccise undici atleti israeliani durante i giochi olimpici del 1972.
Quasi in presa diretta sono Inside Job (2010), che svela il sistema corruttivo nella finanza americana, responsabile della bolla finanziaria, Taxi to the Dark Side, straordinario, intenso, emozionante lavoro di Alex Gibney che nel 2007 denunciava il “sistema” Guantànamo, Iraq in Fragments, che pur non vincendo l’Oscar (andato in quell’anno, 2006, a Una scomoda verità di Davis Guggenheim, niente di eccezionale esteticamente, ma necessario e urgente), si fa ricordare per lo sguardo profondo su tre momenti di vita vera nella terra martoriata dell’Iraq. E quest’anno si potrebbe scommettere su Dirty Wars di Richard Rowley, che scava nelle guerre in cui è coinvolto il governo Usa, partendo dall’Afghanistan.
Per non allontanarci troppo, soli dieci anni fa in cinquina arrivavano film con focus molto diversi ma accomunati dalla libertà narrativa, da scelte registiche volte a forzare la realtà, per provocarla e coglierne elementi emozionali. La storia del cammello che piange ad esempio, documentario di narrazione, immersivo, che poco si preoccupa di dichiarasi documentario appunto, o vicenda costruita con non attori, o addirittura finzione pura. E poi Super Size Me, con Morgan Spurlock che quasi ci lascia le penne per dimostrare quanto male faccia una dieta al MacDonald’s. Quell’anno vinse il bellissimo Born into Brothels e idealmente i bambini di Calcutta.
Qualche svista a proposito di ibridi: viene da chiedersi come mai nelle cinquine non figurino i nomi di Wiseman, Philibert e, soprattutto, Herzog, che forse più di altri ha lavorato sulla forma documentario aprendo alla poesia per immagini (penso ad Apocalisse nel deserto o Il diamante bianco) o concedendosi sortite nel mocku. Del resto tra i grandi documentaristi di sempre non mancano Robert Flaherty, vincitore nel 1950, Jacques-Yves Cousteau (che fu navigatore ed esploratore) che di Oscar ne vinse ben due (nel 1956, Il mondo del silenzio, e otto anni dopo, Il mondo senza sole), il già citato Algar.
La cinquina quest’anno è da brividi. Scommetterei due euro su Rowley, ma poi c’è lo strabiliante The Act of Killing, che mette in scena con uno stratagemma che non sveliamo le nefandezze della dittatura indonesiana, c’è piazza Tahir (The Square), c’è la musica di 20 Feet from Stardom, che però di chance ne ha poche, ma mi fa venir voglia di rivedere uno dei più bei film da Oscar degli ultimi anni, il trionfatore dell’anno scorso, la storia commovente di un musicista dimenticato: Sixto Rodriguez.
Alessandro Leone
DISCORSI DA OSCAR
«Ora non si può negare che io vi piaccio. Io vi piaccio!» Finiva così uno dei migliori discorsi di ringraziamento mai sentiti sul palco della notte degli Oscar. Era il 1985 e Sally Field fu premiata come miglior attrice per Le stagioni del cuore racchiudendo nelle sue parole il senso del premio: il riconoscimento del proprio lavoro da parte dei colleghi. C’è chi sostiene si trattasse di una citazione da un suo film precedente, ma in quel mento alzato fieramente verso l’alto, le braccia in aria e il sorriso smagliante, eventuale sarcasmo per un premio negato in precedenza si era disperso in un mare di gioia. Questi sono i momenti per cui la Notte degli Oscar è ricordata e attesa, perché i thank speech sono il cuore dello show, promettendo e non sempre mantenendo risate e lacrime, noia ed esaltazione, conferme e sorprese: il cuore di quel baraccone spettacolare che è la Notte degli Oscar e che ognuno usa come vuole.
Con la serietà di un’investitura (Morgan Freeman, Million Dollar Baby, 2005), con la compostezza di un’inglese in America (Julie Andrews, Mary Poppins, 1965), con i sospiri affannati di chi non avrebbe mai pensato di farcela (Penélope Cruz, Vicky Cristina Barcellona, 2009), con singhiozzi incombenti e lacrime involontarie (Gwyneth Paltrow, Shakespeare in Love, 1999) o con la volontà di dire al Presidente Bush di vergognarsi (Michael Moore, Bowling for Columbine, 2003). I discorsi di ringraziamento sono uno spettacolo nello spettacolo e alcuni sono rimasti nella storia. Sicuramente il più memorabile è stato quello mancato, ovvero quando Marlon Brando (Il padrino, 1973) mandò sul Sacheen Littlefeather, una nativa americana, per spiegare il proprio rifiuto in protesta contro la politica di segregazione degli indiani d’America. Non venne permesso a Sacheen Littlefeather, che si scoprì molti ani dopo essere un’attrice, di leggere la letera di 15 pagine scritta dal grande attore, e l’anno dopo l’Academy cambiò poi il regolamento sulle “deleghe” al ritiro del premio.
Di solito i discorsi migliori sono quelli accompagnati da impeti di gioia incontrollati. Jack Palance (Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche, 1992) al suo primo Oscar alla bellezza di 73 anni, si mise a fare le flessioni sul palco. Fu standing ovation per Cuba Goodwin Jr. (Jerry Maguire, 1997) che non riusciva a smettere di saltare e ringraziare, tanto da ignorare la “proverbiale” musica che segnala di lasciare il palco. Peccato che il premio non gli portò fortuna per i ruoli successivi, facendo ricordare quel momento come la sua migliore performance di sempre. Per non parlare di Robberto, alias Roberto Benigni (La vita è bella, 1998) che ha camminato sulle spalle di Steve Spielberg prima di raggiungere il palco.
Ci sono state gaffe e momenti di grande commozione. Julia Roberts scordò di ringraziare la vera Erin Brokovich (2001) al termine di una sequela infinta di nomi, cose e animali, scusandosene poi in sala stampa. L’arrivo sul palco degli Oscar di grandi esclusi dal premio, come gli inventori del cinema moderno Charlie Chaplin e Alfred Hitchcock, per i rispettivi oscar alla carriera, sono bastati per far defluire le lacrime, così come le parole per Giulietta Masina spese da Federico Fellini.
Ovviamente la persona più ringraziata è sempre stata la mamma: Clint Eastwood (MIllion Dollar Baby, 2005) indicò la tenera e orgogliosa madre 94enne tra il pubblico. Fa sorridere poi rivedere oggi Susan Sarandon (Dead Man Walking, 1996) ringraziare con gli occhi colmi d’amore Tim Robbins… e l’agente. C’è poi chi saluta tutta la famiglia, dal babbo ai cugini, ed è incredibile quando da casa ci si sente di conoscerli tutti (Sofia Coppola, Lost in Translation, 2004).
Ci sono poi gli Oscar lungamente attesi i cui discorsi si trasformano in un monologo comico. Steven Spielberg (Schindler’s List, 1994) ci tenne a sottolineare: «ho amici che ne hanno ricevuto uno, ma questa è la prima volta che ne stringo uno tra le mani». Martin Scorsese (The Departed, 2007), presentato dal trio di amici Coppola, Lucas, Spielberg, scherzò su tutte le persone, in strada, negli ascensori, nei ristoranti, che gli dicevano che avrebbe dovuto vincerne uno. E ci sono anche discorsi diventati un film. Tom Hanks (Philadelphia, 1994) ringraziò il suo vecchio professore, di fatto alludendo alla sua omosessualità, fatto che poi divenne il soggetto di In&Out con Kevin Kline.
Chissà cosa uccederà quest’anno e cosa ci dovremo aspettare. Le orecchie sono puntate sulla premiazione per il miglior attore da cui ne sentiremo delle belle, sia che vinca Leonardo DiCaprio – che aspetta di salire su quel palco dal 1994, anno della sua prima nomination per Buon compleanno Mr. Grape – sia che vinca l’ex bietolone Matthew McConaughey.
Di certo, negli ultimi 20 anni la Notte degli Oscar è diventata più uno show televisivo che non una premiazione, e quindi ogni discorso deve necessariamente intrattenere. E allora, che il rutilante, amato e odiato Oscar ci ricordi semplicemente che il cinema ci piace e noi piacciamo a lui.
Sara Sagrati