Ennesimo caso di pessima traduzione italiana del titolo originale, Non ci resta che vincere non ha nulla a che fare con il film di Benigni e Troisi del 1984, mentre ha molto a che fare con i concetti (arbitrari) di vittoria e sconfitta perfettamente espressi dall’icastico titolo spagnolo Campeones.
I campioni di questo titolo sono un gruppo di ragazzi raccolti intorno a un centro culturale di Madrid, nella cui palestra, grazie al loro mentore Julio e a scarsissimi fondi pubblici, possono giocare a basket e sognare di partecipare ai campionati locali e nazionali. Ciò che gli manca è un allenatore.
Marco Montes (Javier Gutiérrez) è il vice allenatore di una squadra di basket professionista, oltre che un uomo arrogante, vigliacco e infantilmente portato a fuggire dalle responsabilità. Il film prende avvio dal climax rovinoso che investe la sua vita nel giro di poche ore (lascia la fidanzata, si fa licenziare e poi arrestare per guida in stato di ebbrezza), e ovviamente dal suo incontro (forzato) con la scalcagnata squadra dei Los Amigos, che dovrà allenare per scontare i tre mesi di lavori socialmente utili cui è stato condannato. Perché i Los Amigos non sono una squadra qualunque: la loro particolarità e la loro forza consistono nel fatto che ciò che li accomuna è la disabilità mentale.
Javier Fesser (classe 1964) è un regista e sceneggiatore spagnolo, autore di corti e lungometraggi (da Camino del 2008, non distribuito in Italia, al film d’animazione Mortadello e Polpetta contro Jimmy lo Sguercio, con il quale ha vinto il Premio Goya della categoria). Con Campeones, che ha registrato tre milioni di spettatori in Spagna ed è il candidato spagnolo a Miglior Film Straniero per gli Oscar 2019, Fesser decide di esplorare un tema delicato, a cui la cinematografia odierna sembra accostarsi di rado e con fatica. Infatti, se negli ultimi anni la disabilità fisica ha trovato qualche spazio al cinema (pensiamo a Quasi amici o al recente Don’t worry), quella psichica sembra costituire ancora un mondo a sé, accidentato e pericoloso. A Fesser va quindi riconosciuto un merito: quello di riuscire a penetrare (non troppo in profondità, ma quanto basta) in questo mondo con passo leggero, discreto e amorevole, restituendoci un’immagine di vera umanità attraverso una costruzione cinematografica fiabistica ed eroica, ma priva di accenti retorici, melodrammatici o paternalistici.
Il film non è privo di difetti, inerenti in primis la sceneggiatura, a tratti prevedibile e stilizzata (forse l’incursione nel cinema d’animazione non è stata priva di conseguenze per Fesser); così come irrisolti o bozzettistici possono apparire certi comprimari, come la madre del protagonista o il proprietario del camper col quale i ragazzi si spostano per le trasferte. Ma non mancano soluzioni di scrittura d’effetto, quali certe felici battute di dialogo tese a scardinare luoghi comuni e farsi gioco dei pregiudizi più radicati (si veda la conversazione sui disabili intellettuali e intellettivi fra Marco e sua madre, e le strambe, incoerenti norme linguistiche da lei adottate rispetto ai gay, da una parte, e ai mongoloidi, dall’altra). Così come non mancano le commoventi e sentenziose perle di saggezza pronunciate dai ragazzi della squadra («Io non credo nella doccia» e «Hai ragione, neanche a me piacerebbe avere un figlio come noi, però vorrei tanto avere un padre come te» e «Giochiamo per vincere, non per umiliare»).
Proprio dall’incontro-scontro tra i due mondi, da una parte quello del pregiudizio, dell’ipocrisia, dell’artificiosità, del sopruso (si veda la scena dell’autobus), dall’altra quello della naturalezza, della sincerità, della spontaneità e della goffaggine, si genera la migliore tensione del film; e questa tensione scatena il riso. Perché l’umana natura è di per sé imperfetta, precaria e ridicola, quella dei giovani giocatori disabili tanto quanto quella dei cosiddetti normodotati: l’uomo, a guardarlo da vicino, non è altro, in fondo, che un animale un po’ più ridicolo degli altri. «Chi è normale?» chiede Julio a Marco quando questi afferma che il suo lavoro consiste nell’allenare «giocatori normali». Cosa è normale, cosa è uguale o diverso? Ogni uomo ha le proprie manie, stranezze e paure; ogni uomo ha le proprie capacità e i propri limiti, e ogni uomo ha qualcosa da insegnare e da imparare, che sia giocatore o allenatore (si veda la scena dei festeggiamenti dopo la finale).
Il film, in virtù dell’amore e della stima che nutre per i suoi protagonisti, non risulta mai irrispettoso della loro dignità; il grande divertimento che genera nasce invece da quello smascheramento di ciò che è vero contro ciò che è falso, operato in modo onesto e spontaneo dai ragazzi interpreti di sé stessi (giovani affetti da reali disabilità psichiche alla loro prima esperienza attoriale), complice poi una sceneggiatura rimasta aperta all’improvvisazione sia in fase di riprese che di montaggio e una musica incalzante, eccessiva, che invita costantemente i suoi paladini a osare. Grazie anche alla regia, quasi sempre aderente ai protagonisti attraverso primi e mezzi-primi piani, il film si trasforma così in uno specchio in cui ciascuno (personaggio o spettatore) può riconoscere continuamente sé stesso e l’altro, in quello scambio reciproco di identità reali o presunte che costituisce in fondo il vero senso e la vera ricchezza dell’incontro. E questo, al di là delle più o meno originali svolte d’intreccio, costituisce forse il maggior acquisto dell’allenatore protagonista: come dice il saggio Román, «la sua disabilità ce l’avrà sempre, ma noi gli stiamo insegnando a domarla».
Giulia Tiziani
Non ci resta che vincere
Regia: Javier Fesser. Sceneggiatura: Javier Fesser, David Marqués. Fotografia: Chechu Graf. Montaggio: Roberto Bolado, Javier Fesser. Musiche: Rafael Arnau. Interpreti: Javier Gutiérrez, Juan Margallo, Sergio Olmos, Athenea Mata, Julio Fernández, Daniel Freire, Jesús Lago Solís. Origine: Spagna/Messico, 2018. Durata: 124′.