È ormai abitudine inveterata, tra le produzioni d’oltreoceano, riferirsi alla classicità come a una sorta di mistico mausoleo del cinema, un sacello in cui sono stratificati, in sedimenti divergenti e altrettanto eterogenee cappellette votive, tutti i pezzi, le maschere e gli strumenti (di tortura) che il genere ha saputo mettere in cantiere. Quando si rimane a corto di spunti, questo magazzino ideale di memoria collettiva apre le sue porticine, come la grotta misteriosa di Ali Babà, e da lì soggettisti e sceneggiatori (nel caso specifico una triade per due terzi “rosata”, Kirsten Elms, Debra Sullivan e Adam Marcus) intrecciano e ricodificano le loro storie. Peccato che a dirigere le danze sia John Lussenhop, mestierante di caratura convenzionale che vorrebbe (forse) stare al capolavoro di Tobe Hooper come Rob Zombie stava a quel di John Carpenter, senza però avere la preparazione teorica del cantante né la verve innovatrice e sanamente anarcoide del regista di Austin. Così, il nostro si accontenta di predisporre la sua narrazione sul letto di Procuste, tira le gambe per aggiustare le dimensioni e poi ne taglia gli scampoli qualora le proporzioni si facciano ingestibili.
Non aprite quella porta (ennesimo) sequel parte laddove finiva il nobilissimo capostipite, con la fuga di Sally Hardesty e il conseguente massacro per sollevazione popolare della squinternata famiglia di macellai cannibali, i Sawyer: dopo uno scontro epico, in seguito del quale gli psicopatici sono sterminati senza pietà da uno stuolo di redneck bibbia-fucile (capitanati da un geniale Paul Rae), ecco che l’unica superstite, la piccola Heather (Alexandra Daddario), viene affidata a genitori adottivi e fatta sparire dalla circolazione. Decenni dopo, però, la ragazza è costretta a tornare, con fidanzato e amichetti, sul luogo della strage, poiché nonna Verna, appena deceduta, ha lasciato all’inconsapevole rampolla, ultima discendente dei Sawyer, la sua magnifica dimora e il cugino ritardato, il famigerato Leatherface (Dan Yeager): un tizio nerboruto e dedito al travestitismo che, da sempre confinato nel sottosuolo della proprietà, continua a baloccarsi con carne umana e motoseghe. Fino a quando un ladruncolo da quattro soldi non penetra quatto quatto nello scantinato per far razzia di argenteria e oggettistica e dimenticare l’uscio spalancato…
Fin qui niente di strano, anche se la variazione a tema (la settima della serie, per amor del puntiglio) lascia storditi già dopo i primi dieci minuti, a cui ne bastano altri quindici per orientare la produzione dell’italoamericano Carlo Mazzoccone sui binari del teen movie più ortodosso. Il che non sarebbe blasfemo di per sé, almeno se il nostro Lussenhop, che nelle interviste si dichiara fan sfegatato dell’originale, avesse rispettato i canoni che proprio di quell’originale decretarono il successo: invece lui segue vie imperscrutabili, e la dimostrazione è che al di là dei deretani muliebri insistentemente inquadrati (d’altronde bisognava pur giustificare il 3D appiccicato al titolo), la pellicola non introduce niente di interessante né nel genere né nella saga di Faccia di cuoio. Il contatore di morti tintinna come una slot, gli attori sono mediocrissimi ragazzotti della borghesia a stelle a strisce (sostituire Bill Moseley a Jim Siedow è un’audacia dalle letali conseguenze, stendiamo un velo sulla restante combriccola), e nemmeno i brevissimi camei degli interpreti “classici” (Marilyn Burns, Gunnar Hansen e persino John Dugan sempre nella parte di nonno Sawyer) risollevano il film dal podio appena rialzato dei perdenti. Viene da chiedersi il perché di una simile operetta, che a ben guardare non è nemmeno inutile ma semplicemente brutta. Forse la risposta è talmente eclatante da sconfinare nella banalità più esibizionista di molto (troppo) recente cinema della paura: e cioè il tripudio ellenistico, ineluttabilmente uroborico, di corpi dilaniati da motoseghe, arti tranciati e volti scorticati per ricavarne bellissimi costumi di epidermide. Su questo Non aprite… diventa sublime esempio di cattiveria, e non lesina in diavolerie e mortifere macchinazioni, il sangue “amplificato” dalla terza dimensione, che quasi schizza sullo spettatore come i fendenti dentati di Leatherface, oppure, in un singulto giustizialista e proletario, i beceri “repubblicani” texani azzoppati prima a colpi di sega elettrica, quindi gettati in pasto alle macine del mattatoio locale. È lì d’altronde che tutto è cominciato, ed è lì che (si spera) le avventure di Leatherface finiranno. I palati grossi saranno soddisfatti, ma la pietanza è cucina da borgata, il caviale sta da tutt’altra parte. Piccola postilla dopo i titoli di coda. Per chi se la sente.
Marco Marchetti
Non aprite quella porta 3D
Regia: John Lussenhop. Sceneggiatura: Kirsten Elms, Debra Sullivan, Adam Marcus. Fotografia: Anastas N. Michos. Montaggio: Randy Bricker. Musica: John Frizzell. Interpreti: Alexandra Daddario, Dan Yeager, Trey Songz, Scott Eastwood, Tania Raymonde, Shaun Sipos, Bill Moseley, Gunnar Hansen, Paul Rae, Marilyn Burns, John Dugan. Origine: USA. Durata: 90 min.