Nomadland è il film che sta riportando gli italiani in sala, oltre che successo agli Oscar 2021 con 3 statuette (Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Attrice protagonista). La regista Chloé Zhao, al suo terzo film dopo Songs My Brothers Taught Me (2015) e The Rider – Il sogno di un cowboy (2017), vanta il primato di seconda vincitrice donna come “Miglior Regista” in 93 edizioni degli Oscar, dopo Kathryn Bigelow.
Il suo è un film intimo e personale, al di là delle convenzioni di tempi e schemi narrativi hollywoodiani, a cui partecipa nelle vesti di produttrice, regista, sceneggiatrice e montatrice. Una creatura che ha visto nascere e crescere, di cui si è presa cura fino alla maggiore età come una madre con un figlio. Una manifestazione d’amore per immagini in cui immergersi e lasciarsi andare. In questa opera non c’è spazio per i pensieri, è solo richiesto completo abbandono.
Nomadland è un viaggio in compagnia di Fern, Francis McDormand (Tre Manifesti a Ebbing, Missouri e Fargo), una donna di sessant’anni ormai prossima alla pensione, che, nonostante una vita di lavoro passata a districarsi tra una mansione e l’altra, si trova costretta a una vita da nomade. Dopo la morte del marito e il fallimento della città industriale di Empire, Fern è costretta a vivere nel suo van Ford Econoline, adibito a casa, che le permette di viaggiare per tutta l’America e sopravvivere di occasionali lavori stagionali. La sua è una storia vera come quella di tante altre persone che in America sono state abbandonate e messe ai margini della società durante il periodo della Grande Recessione ma che hanno scelto di unirsi intorno alla figura del “vandweller” Bob Wells (realmente presente nel film nei panni di se stesso). Tale fenomeno di resilienza è stato raccontato nel libro Nomadland – Un racconto d’inchiesta della giornalista Jessica Bruder, da cui Chloé Zhao prende ispirazione per raccontare le storie di questi nomadi moderni, molti dei quali prestano addirittura il loro volto nella pellicola, portandole al grande pubblico tramite il mezzo cinematografico. Attraverso i volti statuari e consumati dei protagonista di questo racconto, insieme alle loro storie di sopravvivenza e solidarietà, la regista mostra una società del capitale che ha fallito, dove l’egoismo e la cupidigia la fanno da padrona a scapito dei più deboli. La loro è una vita di stenti, una lotta per la sopravvivenza, nonostante un’intera vita di duro lavoro. Sono come cavalli da soma che a fine vita vengono abbandonati, riprendendo una metafora all’interno del film.
Ma qualcosa stride in questa presentazione perché, man mano che conosciamo meglio queste persone, un bagliore sottile ma intenso si fa strada attraverso l’oscurità materiale e dai loro sguardi profondi, i loro dialoghi, i loro sorrisi entriamo in contatto con anime sorprendentemente vive e gioiose. Se la vita è per natura precaria, un alternarsi di gioia e sofferenza, questi nomadi della strada hanno accettato la sfida e hanno scelto la via della riconnessione. Quelle che all’apparenza possono sembrarci persone disperate, nulla tenenti e abbandonate a se stesse, in realtà, proprio nella sofferenza, hanno ritrovato una porta verso la gioia più profonda. Fuggite dalle illusioni della società materialista hanno riscoperto il valore della comunità e dello stare insieme, la potenza del sostenersi a vicenda come fratelli nonostante le differenze. La natura selvaggia non fa più così paura: lande ghiacciate, deserti aridi, foreste giganti, l’oceano sconfinato, il caldo soffocante e il freddo immobilizzante sono diventati loro stretti compagni di viaggio. Hanno compreso di essere parte integrante della natura, di un meccanismo più grande e impossibile da controllare; fatto da miliardi di stelle e milioni di forme di vita, regolate da una coscienza più alta che solo lontanamente possiamo captare con i nostri sensi limitati.
Nell’accettazione della precaria condizione umana hanno trovato la serenità. Nella consapevolezza che il tempo a disposizione è limitato in un ciclo incessante tra la vita e la morte, si spostano e si interrogano alla ricerca di un senso. Queste anime erranti si imbattono nelle tracce di vite passate, manifestazioni grandiose della natura e che ora non ci sono più. Una stella alta nel cielo è l’emanazione di un pianeta distante anni luce che non c’è più; la statua di un dinosauro domina la valle sconfinata, eco di un mondo ormai perduto; le rocce rossastre e maestose del deserto del Nevada portano con sé centinaia di migliaia di anni di continua erosione e mutamento. Per loro ogni incontro può diventare possibilità di crescita e di scambio, ogni persona un maestro di vita. Il dare, come donare e servire, si sostituisce alla rabbia, la lussuria e l’odio. Poiché l’amore è il principio che muove tutte le cose e di cui tutti gli esseri sono profondamente desiderosi.
Questa lezione Fern l’ha capita bene, tant’è che al suo caro amico Dave raccomanda di concentrarsi sul “dare”, di liberarsi dai fantasmi e fardelli del passato amando e facendo il nonno ora che ne ha la possibilità. Difatti, si è sempre in tempo per ricominciare ad amare a “Nomadland”. E se un domani verranno a mancare le forze o la motivazione di stare al mondo, ricordiamoci di queste parole e con la coscienza che alla notte succede sempre il giorno, come non c’è tramonto senza una nuova alba, sterziamo il volante e rimettiamoci in carreggiata. Forse, come Swankie ci insegna, dobbiamo imparare a vedere la vita come una preparazione alla morte e solo in questo modo tutto acquista un senso meraviglioso. In questo percorso tanto tortuoso, colmo di continui ostacoli e intemperie, alla fine non può che attenderci un ritorno a casa. Continuiamo a viaggiare, non fermiamoci, non adagiamoci sugli allori perché la felicità può essere proprio dietro l’angolo. E un giorno, magari, potremo rivederci tutti lungo la strada.
Samuele P. Perrotta
Nomadland
Regia, sceneggiatura, montaggio: Cloé Zhao. Fotografia: Joshua James Richards. Interpreti: Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie, Bob Wells. Musica: Ludovico Einaudi. Origine: USA, 2020. Durata: 108′.