E’ metafisica l’ultima tappa di Pablo Larrain nella storia del suo Cile. Dopo Tony Manero, Post Mortem e No, i giorni dell’arcobaleno, modellando un biopic atipico sul poeta nazionale, si spinge indietro fino al 1948, a un passo dalla Guerra Fredda, quando al timone del paese c’era il Presidente Videla, già leader del Partito Radicale poi esponente dell’Alleanza Democratica, di cui facevano parte gli stessi radicali, i democratici e i comunisti. Larrain e lo sceneggiatore Guillermo Calderón non costruiscono un film politico in senso stretto, ma, partendo dalla feroce critica del Senatore Pablo Neruda, che accusa il governo di tradire il Partito Comunista, e la conseguente reazione di Gonzales Vileda (interpretato da Alfredo Castro), che ne ordina l’arresto, raccontano i giorni della fuga del poeta e di sua moglie, la pittrice Delia del Carril (Mercedes Morán), liberandosi dall’obbligo della filologia e del realismo storico.
Se l’antefatto è il discorso che il poeta (un magnifico Luis Gnecco) tenne il 6 gennaio del ’48 davanti al senato cileno, in cui elencò i nomi dei minatori tenuti prigionieri in carceri militari dopo un violento sciopero, Neruda dichiara immediatamente di rinunciare alla cronaca, centrandosi sull’incredibile caccia allo scrittore, che vede protagonista il Prefetto della polizia Oscar Peluchonneau (Gael Garcia Bernal), esasperato e attratto, ossessionato e attratto, affascinato, respinto e ancora attratto da Neruda. Larrain, regista di raffinata intelligenza, aggira le trappole del film biografico, che codifica gli obblighi di aderenza e rispetto fino a soffocare l’invenzione, il guizzo, la poetica autoriale, distillando dal personaggio (tra i più complessi artisti del 900) la natura immaginifica, la capacità di inventare dal nulla e di reinventarsi come fosse un character di finzione letteraria. Il poeta rivisita la propria immagine esagerando i rischi della latitanza per aggiungere all’uomo politico e al poeta idolatrato, il profilo dell’eroe sfacciato, le cui gesta travalicano i confini nazionali per diventare leggenda sudamericana la cui eco si riverbera in Europa e, in Europa, si accomoderà nei salotti prestigiosi dell’intellighenzia. Certi fatti, allora, non sono più fatti ma supposizioni; altri fatti vengono sovrascritti dai versi di Canto General, raccolta epica composta in quei mesi di spostamenti clandestini; e altri ancora finiscono per confondersi con il racconto che Neruda stesso reinventa di quel gioco tra gatto e topo ingaggiato con Peluchonneau, a cui affida la voce narrante. A questo punto Larrain può prendersi più di una licenza, guadando l’ostacolo del pubblico giudice, che solitamente non perdona tradimenti del mito. Neruda, il biopic, si deforma, si gonfia maliziosamente per vestire abiti cinematografici inaspettati: in maniera irriverente calza il film storico, abbina poliziesco e noir, indossa gingilli da melodramma, si avvolge infine con un mantello da western di frontiera andina, ricordandoci che Neruda on the Road è un film sull’arte della mitopoiesi: il viaggio di un braccato che scrive il percorso, le traiettorie di chi insegue, e perfino le sue ragioni, dal momento che il poliziotto è ben oltre la figurina di rincalzo. Peluchonneau è un figlio bastardo, messo al mondo da una di quelle prostitute tanto amate dal poeta, forse ingravidata dal mitico Prefetto Peluchonneau Primo, a cui è stata dedicata una statua. Garcia Bernal regala a quest’uomo l’irrequietezza del Secondo, l’incertezza del dubbio, l’irregolare tracciato del segugio innamorato della sua preda, a cui chiede a un certo punto di non essere cancellato. “Se mio padre fosse il poeta?”, allora padre, non dimenticarmi!
Esistenzialista perso, Peluchonneau sembra uscito dalle pagine hard boiled di Hammett o Chandler, così Larrain immagina l’abbia voluto Neruda, trasfigurando se stesso in personaggio da romanzo. Per questo il regista si diverte nel simulare il trasparente sullo sfondo degli abitacoli delle automobili d’epoca, con la strada che curva innaturalmente dietro il parabrezza; per questo taglia i volti con luminosità radente, crea sconcertanti controluce e, come già nel magnifico El Club, chiede al direttore della fotografia di desaturare e scontornare ambienti e personaggi, rendendo materica l’atmosfera.
Come afferma il regista, in Neruda c’è una confluenza tra arte e politica, perché il poeta diventa (per sua stessa convinzione) simbolo di libertà per l’intero paese. “I suoi scritti sono pieni di rabbia e di voli della fantasia, sono pieni di sogni terribili e di una descrizione cosmica dell’America Latina, sono scritti furiosi e disperati”.
Non c’è inquadratura o movimento di macchina in questo film che non ci ricordi quanto l’arte ci restituisca il mondo dopo averlo sognato.
Alessandro Leone
Neruda
Regia: Pablo Larrain. Sceneggiatura: Guillermo Calderón. Fotografia: Sergio Armstrong. Montaggio: Hervé Schneid. Musiche: Federico Jusid. Interpreti: Gael Garcia Bernal, Alfredo Castro, Pablo Derqui, Luis Gnecco, Mercedes Morán, Antonia Zegers, Emilio Gutiérrez Caba. Origine: Argentina/Cile/Spagna/Francia, 2016. Durata: 107′.