Era il 2016 quando in Italia approdava (con due anni di ritardo) il primo lungometraggio di Alonso Ruizpalacios: Güeros. Senza timori da novellino, e con tanto sangue caldo, il regista si permetteva di mescolare codici linguistici e di scherzare con lo spettatore mostrando, a metà film, un ciak in campo mentre con disinvolta sfacciataggine godardiana uno dei personaggi lamentava la pochezza della trama. La trama poi non era affatto poca cosa: andava a caccia dei contrasti sociali di Città del Messico, dei sogni smarriti di una generazione di adulti anziani, di quelli utopici di studenti in lotta per il progresso culturale, di altri, frammentati fino allo sbriciolamento, di giovani annoiati e allergici alle barricate.
Ecco, questi ultimi potrebbero essere i figli dei protagonisti di Museo, film ambientato sempre nella capitale messicana ma tre decenni prima, quando due eterni laureandi, ben oltre la soglia dei trenta, decidono di dare una sferzata alle loro noiose esistenze rubando la collezione di opere mixteche, zapoteche e maya, compresa la maschera funeraria del re K’inich Janaab’ Pakal, dal Museo Nazionale di Antropologia. La notte di Natale del 1985, Juan (Gael Garcia Bernal) e Wilson (Leonardo Ortizgris) decidono di approfittare di un sistema di sicurezza ridicolo e mettono a punto la rapina del secolo, pensando poi di poter rivendere una refurtiva in realtà senza mercato.
Nonostante il salto temporale all’indietro, Museo è in perfetta linea con il film che lo precede, tanto nel racconto quanto nello stile. Juan e Wilson, si diceva, soprattutto dopo la rapina, quando il tentativo di piazzare il bottino diventa un girovagare a vuoto, assomigliano per certi aspetti a Fede e Santos che però, seppur negletti, rinunciatari, disimpegnati, cinici, in Güeros si lasciavano chiamare all’avventura per incontrare un mitico cantante popolare in fin di vita, segno che forse in loro sopravviveva ancora il desiderio di trovare in un simbolo il legame con il passato. Juan e Wilson, più Juan a dire il vero poiché Wilson si lascia trainare per fedeltà all’amico, non sentono vibrazioni di fronte alla maschera maya che è orgoglio nazionale. Così come ce li racconta Ruizpalacios, i due trentenni sono fermi allo stadio adolescenziale della dimostrazione di forza e coraggio nell’esibizione dell’atto eclatante, che solo dopo si finalizza in un disegno criminale quanto balordo. Già la mattina del 25, quando i media danno notizia del clamoroso furto, Juan passa dalla soddisfazione megalomane di chi ha fatto qualcosa di straordinario, alla colpa imperdonabile d’essere un traditore figlio di puttana, così come il padre (Alfredo Castro) etichetta i ladri. A quel punto non c’è altro da fare se non portare avanti il folle piano, arrivare ad Acapulco per vendere l’invendibile a un collezionista inglese, Inglese!: un tesoro senza prezzo, emblema di un paese che ha sofferto la colonizzazione e che condivide con altri paesi del sud del mondo il disprezzo per i mercanti d’arte che nei secoli hanno depredato e reciso radici, si sono arricchiti nel nome di una presunta ipocrita conservazione di un passato estraneo. Il padre di Juan ha stampato in volto tutto questo e il disprezzo per la banalità dei ladri, colpevoli di una catastrofe senza precedenti. Figli di puttana!, non potrebbero essere altrimenti, perché Juan, ad esempio, ha avuto tutto nella vita: denaro, possibilità, orientamento, affetto.
Ad Acapulco la pochezza sconcertante di Juan emerge tutta nel detour spiazzante, senza meta: diviso da Wilson, il cui unico pensiero è il padre malato, si perde in un girovagare allucinato, con quei pezzi di storia patria nello zaino, come fossero oggettini personali di scarso valore, e che anzi, via via, si svuotano di senso per diventare altro, un coppa in cui versare rum, o formine da spiaggia per bambini, una deritualizzazione dell’oggetto che si libera del suo valore e forse respira, per un frangente, nuova vita, come fosse un re che sotto mentite spoglie si confonde con la folla e gode.
Ruizpalacios si concede licenze sulla storia vera, dichiarando da subito che al cinema la verità non è di casa, che la menzogna anzi è ontologica, che alla fine affascina l’artefazione dell’originale anche di fronte all’originale (che poi è il compromesso di molte collezioni museali, oltre che del cinema).
Ci sono poi altre libertà che si prende il regista in coerenza con il film precedente e riguardano l’impianto sonoro. Come in Güeros suoni e silenzi raramente sono diegetici, ma intenzionalmente fasulli e in netto contrasto con il naturalismo (c’erano chiare citazioni a Godard). La colonna musicale detta il ritmo (lo struggente racconto iniziale immerso negli anni 70), la colonna dei suoni e dei rumori determina gli aspetti psicologici dei protagonisti (riverbero di personalità deboli), sollecita tensioni da heist-movie, segna il cortocircuito tra azioni e morale (come nel noir), alimenta la convinzione di trovarci di fronte a due inetti quando, in contrasto con il visivo, l’audio diventa tragicomico (la scazzottata ad Acapulco che ricorda nei suoni quelle del duo Spencer-Hill). Il regista gioca sulla variazione di registro in ogni segmento narrativo, esasperando un meccanismo rodato in Güeros, per cui quello che dovrebbe essere il resoconto di un fatto di cronaca si smarca dal filone delle rapine per diventare thriller, noir, avventuroso road-movie, tragicommedia, romanzo di formazione, con riferimenti visivi sfacciati a Carol Reed, Orson Welles, Federico Fellini (e potremmo continuare). Ad ogni snodo di sceneggiatura Ruizpalacios sembra infilarci in una stanza dedicata al cinema che ama, piena zeppa di falsi d’autore, rivincita messicana sulla cultura occidentale dell’immagine. Un museo nel Museo che speriamo non diventi una maniera linguistica.
Alessandro Leone
Museo – Folle rapina a Città del Messico
Regia: Alonso Ruizpalacios. Sceneggiatura: Alonso Ruizpalacios, Manuel Alcalá. Fotografia: Damian Garcia. Montaggio: Yibran Asuad. Interpreti: Gael Garcia Bernal, Leonardo Ortizgris, Simon Russell Beale, Ilse Salas, Alfredo Castro, Leticia Brédice, Lisa Owen, Lynn Gilmartin. Origine: Messico, 2018. Durata: 128′.