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Moonrise Kingdom: colpi di fulmine nel New England

New England, estate 1965. I dodicenni Sam e Suzy si innamorano, stringono un patto segreto e fuggono nella foresta. Mentre gli adulti li cercano una violenta tempesta metterà totalmente a soqquadro la comunità locale.

Dopo la presentazione al Festival di Cannes, dove ha aperto la manifestazione, qualcuno ha riduttivamente definito il film only for fansMoonrise Kingdom in effetti non deluderà gli appassionati di Wes Anderson, uno dei registi contemporanei esteticamente più riconoscibili. I titoli di testa ci introducono nel suo rassicurante mondo, con i suoi personaggi curiosamente disadattati, una vivacità di colori ed una cura dei dettagli che la camera frontale, mobilissima in orizzontale e verticale, va a pescare. Ogni dettaglio apre e rimanda ad altro: i quadri della casa anticipano i luoghi del film, mentre la colonna sonora ci segnala che forse suoneremo sempre la stessa musica, la stessa storia d’amore adolescenziale già vista tante volte, ma che i singoli strumenti e le singole partiture faranno la differenza. Sono infatti i tanti dettagli che in un gioco sinfonico di rimandi interni ed esterni ci avvolgono e coinvolgono nel corso del film. E allora una rappresentazione scolastica su Noè anticipa l’alluvione finale mentre il colpo di fulmine tra i due personaggi nel camerino prima dello spettacolo diventa una vera e propria saetta che colpisce Sam. A fare da contrappunto alla vicende vitali dei due ragazzi ci sono le parti suonate dagli adulti, più malinconiche ed amare, che ci parlano delle tante disillusioni, del dolore di scoprirsi stupidi come il comandante Sharp (Bruce Willis), traditi dalla moglie come il Signor Bishop (Bill Murray) o semplicemente soli come il capo scout Ward (Edward Norton).

Se per contro non avete mai visto nulla di Wes Anderson Moonrise Kingdom è una visione consigliata, una variazione sui vari temi che ben introduce nell’immaginario del massimo esponente della commedia indie americana degli ultimi anni. Perché Moonrise è romantico come Fantastic Mr. Fox, ci fa sorridere della famiglia e delle sue dinamiche come I Tenenbaum, ci presenta personaggi che non posso sottrarsi ad una chiamata identitaria che li invita alla missione, all’avventura, al movimento come lo Zissou nelle sue avventure acquatiche.

E come per tutti i film di Anderson una visione non basta, sono tanti i dettagli da scovare che il regista semina per tutta la pellicola, fino all’ultima copertina dei libri letti da Suzy. Se poi restate ancora freddi e distaccati sono fatti vostri, la comunità dei fan continuerà a godere delle infinite variazioni che questo regista texano saprà regalarci.

Massimo Lazzaroni

Sam & Suzy’s Guide to the Orchestra

Una domanda è sensata: e se fosse un film d’animazione anche l’ultimo scherzo di Anderson? Proprio come Fantastic Mr. Fox. Dal passo uno al meccanismo della motion capture (e la conversione di attori in carne e ossa in personaggi digitali) ribaltato, per cui dal pixel si passa alla carne.

Nessun antefatto: Anderson ci infila nella casa di bambole della famiglia Bishop e bastano i movimenti di macchina orizzontali e verticali sui titoli di testa a restituirci un piccolo sistema che sa di modellino in cui il gioco è reiterato, uguale a se stesso, in eterno, con individui che si muovono meccanicamente e mobiletti perfettini in perimetri che sono più scatole che stanze di vita.
E poco diverso è il Camp Ivanhoe, con tendine cachi ordinate: altro carrello laterale a seguire da sinistra a destra il percorso del capo Scout lungo quello che pare il centro di un plastico. Sam è già fuggito verso l’appuntamento con Suzy. I coetanei lo odiano perché lo considerano svitato. E invece è “avvitatissimo”. Maestro nell’arte della sopravvivenza, pare l’unico sano nel cercare l’esperienza a contatto con la natura che possa iniziare lui e la compagna all’amore: attraversare un dirupo, procurarsi il cibo, accendere il fuoco, raccontarsi, guardarsi da lontano (con zoom che omaggiano la leggerezza di certo cinema francese anni 60), baciarsi (alla francese, appunto), toccarsi: “credo che il mio seno crescerà”. Una progressione che, nell’eros improvvisato, ha la delicatezza dello sbocciare naturale di un fiore, mentre tutto presto diventa tempesta e chiede ai personaggi secondari di uscire dallo sfondo e farsi partecipi di una vicenda amorosa che precede l’analfabetismo emotivo dell’età adulta.
A questo punto torna in mente l’incipit sulle note del vinile di Benjamin Britten “Young Person’s Guide to the Orchestra”, in cui su un tema di Purcell vengono presentati i diversi strumenti che eseguono poi una fuga. Ovvero, frammenti che tornano a far parte di un quadro unico e complesso per generare armonie (che è poi il lavoro del cinema). Alexandre Desplat ci ricama costantemente, fino al gran finale sui titoli di coda che bisogna guardare fino alla fine per capire davvero il film. Tentare l’assolo è possibile, ma con un collettivo a supporto, difendendo comunque le istanze di libertà. Un filo rosso per nulla nuovo nel cinema di Anderson, che anzi ridicolizza la perdita di incanto dei suoi personaggi adulti, che sentono di non valere poi molto di fronte alla spensierata voglia di nuovo dei più piccoli. Non ci sono tanti altri modi per imparare a suonare in un’orchestra da protagonisti, se non rischiare.

Alessandro Leone

Moonrise Kingdom

Regia: Wes Anderson. Sceneggiatura: Roman Coppola, W. Anderson. Fotografia: Robert Yeoman. Montaggio: Andrew Weisblum. Musica: Alexandre Desplat. Interpreti: Jared Gilman, Kara Hayward, Bruce Willis, Bill Murray, Frances McDormand, Edward Norton, Tilda Swinton, Bob Balaban. Origine: Usa, 2012. Durata: 94′.

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