Milano FF 2013

MILANO FILM FESTIVAL: come i giovani autori intendono la crisi

Il Milano Film Festival è da sempre un luogo nel quale si misurano le tendenze del cinema contemporaneo, soprattutto perché in concorso vengono ammesse principalmente opere prime e seconde. Tenendo fede a questo principio, si può osservare quanto i giovani autori sentano l’esigenza di esprimere il proprio punto di vista sulla crisi, non intesa solo come il risultato di scelte economiche e finanziarie sbagliate, ma piuttosto come inevitabile conseguenza di un modello sociale e culturale che sta definitivamente crollando.

The_Eternal_Return_of_Antonis_ParaskevasA tal proposito non si può che partire dalla Grecia, rappresentata quest’anno dal lavoro di Elina Psykou che propone il suo complesso film The Eternal Return of Antonis Paraskevas già presentato al Festival di Berlino. La storia racconta di uno dei più famosi presentatori della Tv privata greca che viene licenziato. Ma Antonis Paraskevas è stato nutrito dalla fama, ha confezionato la sua vita in modo che fosse essa stessa un grande spettacolo, quindi decide di tornare alla ribalta facendo finta di essere stato rapito. In realtà attende con pazienza in lussuoso albergo abbandonato di essere compianto dai colleghi giornalisti e dai suoi fan, fino a quando non riterrà opportuno essere “liberato”. Il momento però sembra sempre sfuggire e così Antonis si perde in una spirale psicotica nel tentativo di far coincidere il mondo del piccolo schermo con la realtà. E’ inquietante quanto questo film sembri mimare i peggiori difetti della cultura nostrana, come se fosse  inevitabile che una volta tolto il velo dell’illusione di benessere restasse solo qualcosa di ineffabile che si tenta di affrontare ed acchiappare allo stesso tempo. La giovane regista crea un gioco di contrasto tra l’Antonis reale e quello televisivo. Le due entità sembrano essere la stessa persona, ma pian piano la differenza fisica li allontana definitivamente. I due, non solo non sono più la stessa cosa, ma sono agli antipodi e allora un Antonis anziano, pelato e malvestito oscilla tra la volontà di inseguire il lindo ed ammiccante uomo barbuto che sta al di là dello schermo e la volontà di sfuggirgli. Ancora una volta i mass media vengono demonizzati dall’arte cinematografica, ma in questo caso ci si sofferma sulla solitudine dell’uomo senza uno dei paletti fondamentali della così detta società del benessere. Il gioco messo in atto dalla sceneggiatura rende il protagonista doppio e solo al contempo. Lunghe carrellate e toni cromatici estremamente freddi enfatizzano l’angoscia di un personaggio che rappresenta un intero paese.

ilo iloSi dice spesso che l’ideogramma cinese della parola crisi è lo stesso della parola opportunità. Sembra essere particolarmente vero per il regista Anthony Chen, rivelazione del Festival di Cannes di quest’anno, che porta al Milano Film Festival il suo primo lungometraggio Ilo Ilo. Non sorprende che questo suo lavoro sia stato tra i più apprezzati della rassegna, soprattutto perché il regista ventottenne dimostra una delicatezza ed una maturità davvero rara e sorprendente. Anthony Chen sceglie di ambientare la sua pellicola nel 1997, facendo riferimento ad uno dei momenti più duri della finanza cinese e tentando di assorbire le paure e il senso di incertezza basandosi  principalmente sulle proprie memorie. Eppure questo talentuoso cineasta riesce a costruire la crisi dell’identità rifacendosi agli aspetti più semplici della vita comune. La narrazione comincia quando la madre di Jail, che aspetta il suo secondogenito, decide di assumere una domestica filippina. All’inizio Jail rifiuta sia l’autorità intransigente della madre sia la gentilezza della giovane bambinaia Terry, ma pian piano il bambino si affeziona alla nuova arrivata, rendendo così insicura la madre. Intanto il padre perde il lavoro e deve ricercare la propria identità e il proprio posto all’interno della società e della famiglia, mantenuta soltanto grazie al lavoro dell’infaticabile moglie. Il macrocosmo della cultura cinese di fine anni novanta viene rappresentato con delicatezza e precisione da questa normale famiglia, alle prese con i problemi di tutti i giorni. L’identità e la ridefinizione del sé sono al centro della riflessione del giovane regista, che ci riporta a scoprire che nessuno può farcela da solo e che con lo sguardo attento a cogliere impercettibili mutamenti dei personaggi e mai pregiudizievole, crea un mondo che ha un profumo intenso di verità e di cose quotidiane. La sfida sembra essere vinta dall’autore, il quale riesce a spogliare di retorica un lavoro estremamente poetico, simbolo del fatto che forse la cosa più eccezionale che un regista può fare in questi tempi è parlare delle persone rivolgendosi ad esse.

da Milano, Giulia Colella

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