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Michelangelo Antonioni a 100 anni dalla nascita

In un’intervista del 1958,  Antonioni dichiarò: “…seguire i personaggi fino a svelarne i pensieri più reconditi. Mi illudo, forse, che stare con la macchina da presa sopra di loro significhi farli parlare. Però credo sia molto più cinematografico cercare di cogliere i pensieri di un personaggio attraverso una reazione qualsiasi, che non chiudere tutto questo in una battuta ricorrendo, praticamente, a un mezzo didascalico”. (cit. da “Michelangelo Antonioni” Seymour Chatman e Paul Duncan)

Michelangelo Antonioni, considerato uno dei massimi rappresentanti del cinema italiano, seppe più di ogni altro rivoluzionare il linguaggio cinematografico con un’idea precisa di narrazione, che intendeva superare i limiti di coerenza e consequenzialità prosaica per elevarsi a contemplazione visiva e gestuale. Molto spesso accusato di “non raccontare nulla”, Antonioni ha sempre privilegiato la potenza evocativa delle immagini, l’intensità dei volti e l’interiorità come cifra del”esistenza.
Questo apparente immobilismo opera congiuntamente al suo inconfondibile tratto stilistico, i cosiddetti temps morts, che consistono  nel lasciare che la macchina da presa continui a filmare oltre il momento in cui qualsiasi altro regista avrebbe staccato, come a volerci indicare un’altra via, quella invisibile del tempo che prosegue oltre l’azione.
L’artista visivo scruta e osserva la realtà che lo circonda, ponendo il mondo al centro della sua indagine, questo è ciò che fa Antonioni e lo fa in maniera del tutto originale. Le immagini non nascondono nulla, ciò che vediamo è esattamente ciò che viene rappresentato eppure il suo significato rimane problematico e lo è ancora di più man mano che la storia prosegue, il film rimane aperto e questo è il senso più profondo di modernità. Il messaggio è quello di una realtà svincolata da ogni principio di certezza o coerenza: in una società in pieno sviluppo industriale e urbanistico, l’individuo rimane ancorato alle proprie pulsioni, rifiuta il razionale per lasciarsi travolgere dall’insoddisfazione e dall’incapacità di comunicare il proprio disagio esistenziale.

Nato il 29 Settembre del 1912 a Ferrara da una famiglia della medio borghesia, Antonioni si laurea in Economia e Commercio all’Università di Bologna per poi intraprendere gli studi di regia frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia, dove per la prima volta si trova dietro una telecamera 35 mm e realizza un cortometraggio girato in un unico piano sequenza (una scelta che anticipa lo stile dei suoi film successivi).
La carriera di regista si interrompe dopo appena tre mesi, quando viene arruolato nell’esercito. Sergente nel Genio Radiotelegrafisti e Segnalatori, la notte si allontana furtivamente dalla caserma per lavorare ad alcune sceneggiature – collabora, per esempio, all’adattamento di un poema narrativo di Byron dal titolo I due Foscari (1942) e a Un pilota ritorna (1942) di Roberto Rossellini.
Dopo le prime esperienze come documentarista, Antonioni esordisce con Cronaca di un amore (1950) nel quale troviamo due accorgimenti tecnici tipici dello stile dei film più maturi: una composizione dell’inquadratura accuratamente studiata e il piano sequenza (una sequenza composta da un’unica inquadratura nella quale la macchina da presa compie diversi movimenti per seguire l’azione degli attori). Questa tecnica era stata utilizzata da John Ford e sopratutto Orson Welles in Quarto Potere (Citizen Kane, 1941).
Malgrado le innovazioni, Cronaca di un’amore non fu un successo né di critica né commerciale. Il secondo lavoro di Antonioni, I vinti (1952), ebbe ancor meno fortuna. Il terzo lungometraggio, La signora senza Camelie (1953), vede una giovanissima Lucia Bosè nei panni di una ragazza che tenta i primi passi nel mondo dell’industria cinematografica italiana. Antonioni avrebbe in seguito esplorato il mondo del cinema in altri due lavori, Il provino (prefazione del film a episodi I tre volti, 1965) e Identificazione di una donna (1982).
Il grido (1957) fu il primo vero successo di critica. Si tratta di un classico del tardo neorealismo, nella misura in cui il protagonista, appartenente alla classe operaia, riflette il malessere scaturito dal dopoguerra. Mentre i film precedenti erano caratterizzati da un diffuso impiego di dialoghi, Il grido si sottomette ad una logica ben diversa: la voce del silenzio, intima e profonda. Questa essenzialità di linguaggio sarà sfruttata con successo nei suoi film degli anni ’60, dove protagonisti sono personaggi dell’alta borghesia. “…quando la scena madre sembra chiusa, c’è il dopo; e mi sembra importante far vedere il personaggio proprio in questi momenti, e di spalle e di faccia, e un suo gesto e un suo atteggiamento perché servono a chiarire tutto quello che è avvenuto e quello di quanto avvenuto che è rimasto dentro il personaggio”.  (Michelangelo Antonioni)
Questo è ciò che accade nei quattro dei migliori film di Antonioni: L’avventura (1960), La notte (1961), L’ eclisse (1962) e Il deserto rosso (1964). Da qui è possibile notare come il regista lasci completamente da solo il pubblico nel desumere autonomamente le motivazioni profonde dalla mera superficialità delle immagini. Musa ispiratrice è Monica Vitti, formidabile in questa parentesi attoriale da eroina tragica. L’infelicità e la frustrazione, tutto ciò che conduce all’insofferenza e all’inadattabilità, possono essere intuiti da un semplice sguardo fuori camera, rivolto al vuoto incolmabile dell’abisso interiore.

A 50 anni esatti dall’uscita de L’eclisse, ci appare ancora attuale la similitudine che Antonioni impone tra le architetture stilizzate e severe della modernità e l’alienazione del singolo, sperimentata e vissuta come sfasamento, interdizione totale. Il titolo prende spunto da un’esperienza personale: “A Firenze per vedere e girare l’eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altre luci. E poi buio. Immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che durante l’eclisse probabilmente si fermano anche i sentimenti”. (Michelangelo Antonioni)
La protagonista Vittoria (Monica Vitti) è una donna sensibile, malinconica, ma anche ottimista; all’inizio la vediamo rompere una relazione con un uomo più maturo, Riccardo (Francisco Rabal), uno scrittore per cui esegue traduzioni. Sembra abbiano passato la notte a discutere senza giungere ad una conclusione: l’amore è finito, ma faticano ad accettarlo. Esasperata, Vittoria se ne va e Riccardo la segue fino a casa, ma lei lo allontana definitivamente, il cancello si chiude, fragoroso, dietro le spalle di Riccardo. Stacco sulla sede della Borsa, nel centro di Roma, dove la madre della giovane è impegnata in una selvaggia speculazione. Qui Vittoria incontra Pietro (Alain Delon), il fascinoso broker che segue gli affari materni. I due iniziano a frequentarsi ed appassionarsi. Nella scena finale sono in procinto di salutarsi e si danno appuntamento per la sera stessa, al solito angolo dell’ Eur. Ciò che avviene da qui in poi è visione sublime; nell’abbracciarsi Vittoria e Pietro volgono lo sguardo in un punto imprecisato fuori campo, non conosciamo i loro pensieri, ma è come se acquistassero volume e spessore. Nessuno dei due si presenterà all’appuntamento. Qual’è il senso di quell’incontro mancato? Il film termina in un crescendo musicale e in un susseguirsi di immagini ordinarie e allo stesso tempo gravide di un’atmosfera angosciante. Vittoria e Pietro non compaiono più, ma permane la sensazione di desolazione avvertita nell’istante in cui i due si congedano, per non rincontrasi mai più (forse).

Affermatosi come regista di fama internazionale, Antonioni  intraprende la sua carriera all’estero firmando un contratto con la Metro-Goldwin-Mayer per la realizzazione di tre pellicole, tra cui Blow-up (1966) che gli valse la Palma d’Oro a Cannes, il premio come miglior film della National Society of Film Critics e la nomination all’Oscar per la miglior regia e migliore sceneggiatura.
Il secondo film previsto dal contratto, Zabriskie Point (1970), fu un disastro totale al botteghino e anche la critica sentenziò duramente: “un film di impressionante superficialità […] al tempo stesso superficiale ed estremamente intellettualistico” (Vincent Canby). Non mancarono, tuttavia, gli elogi: “l’indagine più intelligente e compassionevole sui giovani radicali della recente filmografia americana”, scrisse Richard Corliss.
Professione: reporter ( The Passenger, 1975) rilanciò Antonioni tra i grandi maestri del cinema. Ad interpretarlo esclusivamente attori stranieri, tra cui Jack Nicholson e Maria Schneider, reduce dal successo mondiale di Ultimo tango a Parigi ( Bernardo Bertolucci, 1972). La pellicola ci mostra interessanti tecniche di ripresa e di montaggio, sopratutto nella scena finale, momento filmico a cui  Antonioni ha sempre dedicato molta attenzione, anche nei suoi film precedenti. L’intera sequenza è girata in un’unica inquadratura di 7 minuti e per realizzarla ci vollero ben 11 giorni. La cinepresa oltrepassa le sbarre di un’inferriata aprendosi un varco e procedendo verso l’esterno, come se l’accurato procedimento tecnico coincidesse perfettamente con l’occhio umano, osservatore di una scena che si svolge al di là del proprio campo d’azione.
Dopo aver realizzato, nel 1980, uno sceneggiato per la televisione,  Il Mistero di Oberwald, per il quale Antonioni confessò di essersi sentito un semplice “esecutore”, comincia a lavorare ad Identificazione di una donna (1982) che segna il ritorno a quelle riflessioni molto care al maestro e saggiamente sviluppate nella cosiddetta “tetralogia dell’incomunicabilità” degli anni ’60. La sua attenzione è rivolta anche ai cambiamenti sociali e di costume che l’Italia stava attraversando proprio in quel periodo, valutando il deterioramento delle qualità della vita degli italiani con atteggiamento scrupolosamente critico.

La sua attività continua ad essere molto prolifica fino a che, nel 1995, non viene colpito da un grave ictus che lo lascia praticamente privo dell’uso della parola e paralizzato sul lato sinistro del corpo. Nonostante ciò desidera disperatamente continuare a fare cinema e con incredibile tenacia realizza all’età di 83 anni Al di là delle nuvole (1995), composto da quattro episodi. Il film reca la sua inconfondibile impronta, sebbene fosse affiancato da un regista di talento, il tedesco Wim Wenders. “Ero fermamente convinto che un regista come Antonioni nonostante il suo handicap e la sua età dovesse avere la possibilità di dimostrare che era in grado di fare un film, che poteva vedere con chiarezza col suo occhio interiore”. (Wim Wenders)
Autore di una poetica raffinata, Antonioni ha subito il fascino delle arti figurative e le ha collocate a sfondo della sua ricerca sull’animo umano, visto sia come risorsa potentissima che come complesso enigmatico nel quale ricercare il nucleo fondante. Si è reso complice garbato del flusso inesorabile del tempo, ponendosi sempre al suo fianco e mai di fronte ad esso, nell’attesa di riceverne sempre ulteriori quesiti, evitando le risposte ovvie e certe.
“Credo che i migliori film di Antonioni continueranno a crescere e a mutare come le dune del deserto nell’arco dei secoli. In questo processo, se ci saranno occhi per guardare, lui potrà diventare un parametro per la bellezza”. (David Thomson)

Jenny Rosmini

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