Al nome Bruno Dumont cosa associate? Forse L’humanité? L’età inquieta (La vie de Jésus)? Film spietati che distillavano crudelmente i sapori più amari della vita. Qualcuno ricorderà Flandres, premiato come i due titoli precedenti a Cannes, oppure il magnifico, mai distribuito, Hadewijch (e ti vien voglia di incitare alla pirateria per recuperare ciò che colpevolmente ci viene tolto). Tra i cineasti più imprevedibili di Francia, ex insegnante di filosofia, Dumont è autore che sa turbare i sogni dei suoi spettatori come pochi altri in Europa. E allora, dopo anni di invisibilità, nelle nostre sale arriva Ma Loute, il suo film più eccentrico, forse il meno indicato per riconquistare il pubblico italiano, non più abituato a racconti inclassificabili, che ciondolano tra i registri, che non per forza abbracciano i canoni classici e che ti sfidano con incongruenze, provocazioni visive, libertà narrative, incursioni nell’assurdo, e trame che pretendono soluzioni metaforiche. Comunque Ma Loute esce con un discreto lancio che punta sulla presenza di mostri sacri come Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi e Juliette Binoche, o più semplicemente arriva sui nostri schermi perché da qualche anno si sono guadagnati una piccola fetta di mercato quelli della Movies Inspired, casa di distribuzione che va a pescare un cinema divergente, film che non si lasciano allineare e che esplorano la Forma e la Struttura, o che almeno ci provano (ricordiamo che quella diavoleria di Holy Motors furono loro a piazzarla in sala).
Ma Loute è lo strambo nome di un giovane pescatore, maggiore di quattro figli di una coppia che vive di ciò che offre il mare della Manica. Siamo a Calais, anno di grazia 1910. Non è ancora Calais della disperazione raccontata in Welcome da Loiret, la terra dei sogni infranti dei migranti, dove gli inglesi vorrebbero imporre la loro versione del muro in territorio francese. Le spiagge sono abbacinanti, il mare misterioso anche quando perde la profondità nei seni lagunari. Tira un bel vento fresco a Calais, ammorbidisce la calura estiva e ne fa meta privilegiata dei francesi del nord. La ricca borghesia tutta vizzi e vezzi, che ancora crede nella Belle Époque e si pavoneggia nei café parigini e spadroneggia nella lotta di classe, mitiga su queste spiagge le tensioni della corsa sfrenata alla posizione sociale, quella che ti fa guardare gli altri dall’alto al basso. I van Peteghem ne sono esponenti di punta, o così sembra. Su un’altura che domina il paesaggio, possiedono una villa dal profilo austero, che mescola architettura egizia e secessionista. Il capofamiglia André (Luchini) si dà arie da intellettuale, vedendo il sublime nel buon selvaggio, come in una omelette. Guarda cara – rivolgendosi alla moglie svampita (Bruni Tedeschi) con una pronuncia che si mangia la erre e strascica le vocali – quel barcaiolo sembra un quadro, un quadro, sembra un quadro – facendo svolazzare la mano in un gesto che se non fosse palesemente comico sarebbe odioso. I van Peteghen da una parte, due figlie bruttine e una nipote che si veste da maschio e che forse è un maschio che si spaccia ogni tanto per ragazza; dall’altra parte i Brufort, pescatori dai volti segnati dalla fatica, mai un sorriso che non sia irriverente. Ma siccome sembra che tra le dune siano misteriosamente scomparse delle persone, ciondolano nei paraggi il grasso ispettore Machin e il magro agente Malfoy, una sorta di coppia comica di evidente tradizione cinematografica: il primo si muove goffamente e ruzzola pesantemente sulla sabbia, il secondo lo rincorre e lo aiuta ad alzarsi. In due non sono capaci di dedurre nulla di sensato. Ma a perdere l’equilibrio, a cadere dalle sedie, a finire gambe all’aria per una sdraio difettosa, a inciampare sui gradini, sono un po’ tutti, tranne i pescatori. I ricchi van Peteghem deambulano flosciamente (André è una via di mezzo tra Tati e Sordi), compassati parlano senza dire nulla di importante, riducono la speculazione del pensiero a frasi standardizzate: tutto è delizioso, sublime, pittoresco, seducente, e intanto non riescono a stare in piedi. Mentre i Brufort, piantati bene in terra, si sfamano facendo fuori i turisti, letteralmente divorati. Cannibali prima di essere cannibalizzati da una classe dirigente stupida e arricchita. Non si tratta solo dei rapporti di classe tra Otto e Novecento, ma di una rappresentazione senza tempo della peggiore Europa conquistatrice e presuntuosa.
Dumont è geniale nel mescolare l’orrore con la commedia grottesca, facendo leva sulla capacità comica di attori in grado di caricare i personaggi. Luchini e la Bruni Tedeschi esibiscono teatralmente i loro caratteri vuoti e nel vuoto spesso stazionano con lo sguardo. La Binoche è pura isteria, ma a sprazzi lucida, tanto da ricordare al fratello André che la vita è pura facciata e che la bestialità cova anche in loro, visto che lei stessa ha generato un figlio/figlia dopo una violenza domestica (padre e fratello ubriachi). E’ così lentamente, gag dopo gag, si definisce un contesto pauroso, la bellezza dei paesaggi, fotografati ricordando la magnificenza della pittura fiamminga, è deturpata dalle condotte aberranti. Ma Loute osserva, arriva quasi a credere in un amore che abolisca la suddivisione in “caste”, per poi riposizionarsi in trincea, tanto evidente è la farsa. I van Peteghem sono così insipidi da non valere nemmeno un pasto.
Peccato per un ritmo che smorza le emozioni e una dilatazione del tempo del racconto ingiustificato, perché offre allo spettatore lo spazio per razionalizzare ciò che vede, quando, al contrario, dovrebbe reagire esclusivamente di stomaco, lasciandosi ora incantare ora respingere, al limite accettare l’assurdo, come quando la gravità pare non rispondere a leggi terrestri, trasformando il film in un oggetto surrealista, in un prodotto delle avanguardie storiche che proprio negli anni Dieci provocavano la borghesia, colpevole di condurre l’Europa verso il baratro. Sarà per questo che la corsa conclusiva dei van Pateghem e dei gendarmi dietro il gigantesco commissario che ha preso il volo, più che a Fellini rinvia forse alla sfilata macabra guidata dalla Morte nel Settimo Sigillo di Bergman.
Alessandro Leone
Ma Loute
Sceneggiatura e regia: Bruno Dumont. Fotografia: Guillaume Deffontaines. Interpreti: Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrice Luchini, Jean-Luc Vincent, Angélique Vergara. Origine: Francia/Germania, 2016. Durata: 122′.