David Lynch è morto. Allora viene da pensare a tutti quelli che, con lui e come lui, sono morti. Sembra strano, ma quando ci accostiamo ai grandi sistemi cinematografici del passato, alle cinematografie internazionali o ai maestri di casa nostra, ci viene istintivo collocarli in uno spazio remoto, storicizzato, figlio di un naturale e doveroso tramonto. Fellini, Visconti, Truffaut e i loro attori: tutti morti a prescindere, giganti fossilizzati le cui opere rivivono nelle consuete rievocazioni celebrative, sui banchi delle università o nei cinema specializzati nella riscoperta o sacralizzazione del passato. Mentre il cinema di Lynch era il cinema consustanziale al suo Dasein, al suo esserci nel mondo e in quel dato momento: era l’arte del farsi e del mutarsi, tanto che, quando uscì Inland Empire (2006), nessuno avrebbe mai pensato a un ritiro misterioso del regista dalle scene internazionali. Era il film indigesto per eccellenza, quello più divisivo e innovatore, da smontare e rimontare infinite volte come un cubo di Rubik senza alcuna soluzione, un frammento che si faceva puzzle discontinuo in costante ripensamento. Insomma i film di Lynch erano vivi, contemporanei, appartenevano cioè a quel modo di immaginare il mondo e di esplorare lo spazio che era appunto caratteristico del presente. Allora, rivisto e riesaminato oggi, a distanza di un po’ di giorni dalla sua dipartita, il lavoro di questo importante regista è il simulacro di un crepuscolo, la lenta agonia di un cinema che piano e progressivamente già si stava accomiatando dal mondo. E che ora appartiene alle ombre, come d’altronde gran parte delle maestranze che con lui hanno collaborato. Non a caso proprio il suo ultimo considerevole lavoro, la terza stagione di Twin Peaks licenziata nel 2017, portava la dedica alla moritura Catherine E. Coulson, la “donna ceppo” della serie originale tristemente avviata al capolinea. Era ormai un percorso in declino, ineluttabile come il senso del tempo che accettiamo per i defunti ma che non riusciamo a metabolizzare sui vivi. Jack Nance, deceduto nel 1996; Dennis Hopper (deceduto nel 2010) nella parte di un criminale dalla lacrimuccia facile che chiede al compare di bravate Dean Stockwell (deceduto nel 2021) di cantare in playback In Dreams di Roy Orbison (deceduto nel 1988); John Hurt (deceduto nel 2017) e Anne Bancroft (deceduta nel 2005) in Elephant Man (1980). Strade perdute (1997): Robert Loggia (deceduto nel 2015) e Robert Blake (deceduto nel 2023). Harry Dean Stanton (deceduto nel 2017), attore feticcio di Cuore Selvaggio (1990), Fuoco cammina con me (1992) e coprotagonista di Una storia vera (1999). Ormai dobbiamo rassegnarci al fatto che il cinema è legato alla sua epoca, e noi con esso, indissolubilmente.
Anche Lynch appartiene a questo passato ingombrante, di mastodonti costretti a rivivere nelle pellicole ingressate nella storia con l’imprimatur dell’ufficialità. Poco prima di lui, nel 2022, come un nefasto antefatto all’ineluttabile, ci lasciava anche Angelo Badalamenti, uno dei più innovativi musicisti della scena cinematografica mondiale e collaboratore per eccellenza di Lynch.
Marco Marchetti