Montato in due versioni, una televisiva della durata di 58′ e una cinematografica più lunga (78′), arriva in Italia distribuito da Wanted, unicamente sul web vista la chiusura delle sale, il documentario che racconta una delle leggende dell’immersione in apnea: Jacques Mayol, ovvero L’uomo delfino, colui che stabilì diversi record di profondità, spingendosi, all’età di 56 anni, fino a 105 metri senza bombole d’ossigeno. Correva l’anno 1983, i 100 metri, ritenuti all’epoca traguardo impensabile, li aveva toccati sette anni prima, consegnandosi definitivamente all’immaginario collettivo come superuomo.
Narrato da Jean-Marc Barr, l’attore che interpretò il ruolo dell’apneista nel film cult di Luc Besson The Big Blue (pellicola del ’88 uscita in Italia 14 anni dopo, sull’onda emotiva seguita al suicidio di Mayol), il documentario mette insieme filmati di repertorio, foto di famiglia, testimonianze di chi ha conosciuto Jacques e di chi avrebbe voluto conoscerlo meglio, a cominciare dai figli Dottie e Jean-Jacques.
Il regista greco Lefteris Charitos, al suo primo lavoro per il cinema (ma vanta diversi documentari e serie per la televisione), ricostruisce con precisione la vita fuori dall’ordinario di Mayol, dalla sua infanzia a Shanghai, figlio di un architetto francese in trasferta, agli anni della maturità. Il ritratto è di quelli che non si dimenticano facilmente, non solo per la propensione all’esistenza errabonda e avventurosa, costellata da cambi di direzione repentini e una giostra di mestieri improbabili (esploratore, reporter, pianista, insegnante, attore, addirittura regista a cinquant’anni di un film erotico, Lure of the Triangle), sregolato dunque e infiammato da tutto ciò che è nuovo, anche nella vita privata, basti pensare al matrimonio forse prematuro con Vibeke Wadsholt Boje, da cui si separerà molto presto, dopo aver messo al mondo due figli, per poi rimpiangere in tarda età la mancanza di legami affettivi profondi come le acque oceaniche che tanto amava. A dire il vero, un rimpianto che portava con sé il ricordo di Gerda Covell, anima gemella morta tra le sue braccia nel ’75, uccisa da un balordo mentre erano in un supermercato in Florida.
Ma L’uomo delfino lavora ben oltre la visione aneddotica del film, probabilmente ad un livello sottocutaneo, allorché tra le sfaccettate contraddizioni di Mayol si intravede il mistero di un uomo che sott’acqua intraprende un cammino olistico verso una riconciliazione armonica con la natura che passa dalla conoscenza del proprio corpo e dei meccanismi di controllo dal cervello agli organi più periferici. Una sorta di yogi dei mari. Ed è affascinante che non sia un monaco tibetano ma un viaggiatore anarchico e senza radicamenti, un seduttore impenitente, e non senza vizi. Il regista assembla i materiali senza perdere linearità narrativa, ma giocandosi per tutta la durata del film il “conflitto” tra due Mayol sempre ad un passo dalla sintesi, che invece rimane fortunatamente irrisolta. L’Uomo Delfino Mayol in ogni fotogramma pare sentire la terraferma come una piazzola di sosta temporanea tra un’immersione e l’altra, e che per questo sulla terraferma si muove incerto, mentre l’acqua diventa alimento e, l’immersione, una filosofia di vita. Si ha l’impressione per tutta la durata del film che Jacques Mayol sia imparentato con una figura mitologica mezzo uomo e mezzo cetaceo, o con le selkie di tradizione irlandese raccontate nel magnifico film animato La canzone del mare. Bastino le magnifiche sequenze ritagliate dall’ampio repertorio in cui l’uomo stringe amicizia con il delfino Clown, forse prima vera compagna di Mayol per un periodo della sua vita, gli anni della definitiva consapevolezza di appartenere agli abissi, di aver bisogno di sostare sotto l’orizzonte mobile che separa aria e acqua per trovare pienezza.
I record e le imprese sono per questo tappe intermedie e simboliche, come la sfida con Enzo Maiorca, mentre acquistano importanza i luoghi-casa che identificano una mappa del percorso iniziatico verso il raggiungimento dell’armonia tra uomo e acqua: la Florida, le Bahamas, la costa di Tateyama in Giappone, le Cicladi, l’Isola d’Elba, vera terra di adozione. Tappe di trasformazione anche fisica, di messa a punto della macchina, del perfezionamento dell’emocompensazione (blood shift), che accomuna uomo e mammiferi marini, e che permette di resistere senza ossigeno a profondità superiori a 40 metri senza rischiare lo schiacciamento della cassa toracica.
C’è qualcosa che avvicina Mayol ad altri personaggi straordinari, da Philippe Petit (che attraversa le Torri Gemelle su un cavo d’acciaio) a Alex Honnold (arrampicato free solo sulla parete di El Capitan): lo sguardo dritto verso l’impresa che diventa però vita, e che li aliena dal mondo pur essendoci nel mondo. Ma nella narrazione di Lefteris Charitos l’impresa passa a tratti in secondo piano, non è il climax, quanto piuttosto un tassello che si è fatto pubblico in un privato che ha trovato nel grand bleu un luogo di energie vibranti da interpellare e trasformare in filosofia zen. Anche per questo a Capoliveri, nel 2001, più che di suicidio per Mayol si è trattato di un passaggio consapevole e sereno, nonché annunciato come racconta la figlia, dopo aver raccolto tutto ciò che serviva per rimettersi in viaggio.
Alessandro Leone
L’uomo delfino
Regia: Lefteris Charitos. Sceneggiatura: Lefteris Charitos, Yuri Averof. Fotografia: Stelios Apostolopoulos. Fotografia subacquea: Stelios Apostolopoulos, Julius Glampedakis, Sassy Horesh. Montaggio: David Kazala. Colonna Sonora: Mathieu Lamboley. Origine: Grecia/Canada/Francia/Giappone, 2017. Durata: 78’.