L’uomo che vide l’infinito, recita il titolo, o meglio, nella versione inglese, L’uomo che conobbe l’infinito. Poco cambia, si direbbe: del resto, lo imparano ancora i nostri studenti di liceo classico, la radice “wid”, in greco, è la stessa, per cui tra il vedere e il sapere, in fondo, il confine è labile. Ma, a rifletterci un attimo, proprio questo gioco di etimologie, questo scivolare apparentemente innocuo dall’occhio alla mente, cela qualcosa di più. Il conoscere che è in gioco non è un conoscere qualunque: non è il conoscere dell’induzione né della deduzione, non è il conoscere dell’indagine o dell’esperimento, non è il conoscere della dimostrazione scientifica rigorosa e fondata, ma è il conoscere dell’intuizione, come direbbe Ramanujan, il giovane protagonista del film di Matt Brown. Un conoscere che non è punto d’arrivo, ma punto di partenza, che non è esito calcolabile, ma visione, illuminazione, quasi arte si direbbe.
Ed è proprio su una diversa idea di conoscere che si articola il dibattito tra Ramanujan (Dev Patel), giovane indiano autodidatta che approda a Cambridge negli anni del primo conflitto mondiale, e Hardy (Jeremy Irons), matematico inglese che, pur credendo nello straordinario talento del giovane, stenta a rinunciare al rigore metodico a favore di qualcosa di tanto geniale quanto indimostrato. Non è solo lo scontro tra Hardy e Ramanujan: è lo scontro tra Inghilterra e India, tra la rigidità di un contesto universitario borghese e la creatività di una mente incolta allevata nella periferia di Madras, tra una scienza cinica e senza Dio e un’arte matematica che sconfina nel mistico e nel sacro. Uno scontro che ci riporta con la mente a quando, anche in Occidente, il numero parlava di trascendenza e la legge matematica era parola di Dio, a quando la scienza non si era ancora dimenticata delle sue origini e ancora sapeva di essere solo l’altra faccia della fede e della filosofia: uno strumento di ricerca del senso. Che differenza c’è, in fondo, tra le formule matematiche che la dea Namagiri mette sulla punta della lingua di Ramanujan e la legge “assolutamente immutabile” di Agostino, “legge di tutte le arti ed arte dell’onnipotente Artefice”? Che differenza c’è tra la realtà in cui Ramanujan riconosce formule, numeri e proporzioni e quel mondo geometricamente ordinato di Spinoza, quel reale assolutamente razionale di Hegel o, molto prima di loro, quel numero-archè dei Pitagorici? In ciascun caso, l’occhio non fa altro che guardare, riconoscere, esercitarsi a rintracciare una regolarità, una legge, che la si voglia chiamare Dio, Natura, Spirito Assoluto o archè.
L’uomo che vide l’infinito non è un capolavoro, anzi: un inizio un po’ frettoloso, dettato dalla necessità di non tralasciare nulla ma di arrivare presto al punto, una parte centrale scorrevole e lineare, seppur farcita di tutti i topoi tipici della biografia edificante in stile hollywoodiano e per concludere in bellezza un finale strappalacrime, in cui la retorica fa da contrappunto soltanto allo strapazzo emotivo. Ma nonostante tutto, ha innegabilmente dei meriti: seppur roboante, l’arringa retorica coglie nel segno e pone un problema non secondario, in un mondo in cui tra scienza e fede, tra logica matematica e pensiero filosofico, ma anche tra scienza e vita sembra essersi aperto un varco incolmabile. Divario che emerge quotidianamente ormai nello sconcerto di uno studente medio quando, annoiato da formule vuote da mandare faticosamente a memoria, chiede: ma a che cosa mi servirà mai studiare la matematica? Il film di Matt Brown, seppur non possa certo offrire una risposta, può quantomeno proporre al grande pubblico uno spunto di riflessione, offrirgli l’occasione di interrogarsi, di porsi il problema e forse, perché no, fargli venire la quasi fantomatica voglia di studiare.
Monica Cristini
L’uomo che vide l’infinito
Regia e sceneggiatura: Matt Brown. Fotografia: Larry Smith. Interpreti: Dev Patel, Jeremy Irons, Toby Jones, Devika Bhise, Stephen Fry. Origine: GB, 2016. Durata: 108′.