Ad associare arte e vita a proposito di un artista, non si fraintende mai: quando non si sovrappone perfettamente, il confine diventa permeabile e una sfuma nell’altra, la pasta madre si mescola con altra pasta madre e lievita.
François Truffaut all’arte ci era arrivato come si arriva correndo sotto una tettoia quando diluvia. Cinefilo dopo aver sposato la letteratura, non aveva rispettato nessuno dei percorsi formativi canonici. Autodidatta, i libri diventano presto un rifugio, grazie anche alla nonna che gli insegna a leggere e lo appassiona ai libri, lascito fondamentale di una famiglia per il resto disfunzionale.
Al mondo per puro accidente, era cresciuto ingombrando la vita della sua giovane mamma e sostenuto per quanto possibile da un padre, che scopre non essere il suo papà naturale quando era poco più che bambino. Anni difficili quelli dell’infanzia; peggio ancora l’adolescenza nella Parigi occupata, a un passo dalla delinquenza, in perenne fuga da scuola, quindi il riformatorio poi il carcere militare. Per salvare la pelle François, “ragazzo selvaggio”, quando non legge, si rinchiude nei cineclub e si innamora perdutamente di Renoir, Vigo, Ophuls, Rossellini, Hitchcock, santini che vanno ad affiancare Roché, Genet, Cocteau e soprattutto Balzac. Librerie e sale cinematografiche sono le sue chiese.
L’incontro della vita ha il volto e l’anima di André Bazin, futuro fondatore dei Cahiers du Cinéma, che lo preleva dal riformatorio per dargli un lavoro. Diventerà una guida intellettuale generosa, un “padre adottivo”.
Nei Chaiers convergeranno poi Rivette, Rohmer, Chabrol, Godard, agguerriti critici pronti a battagliare (Truffaut in prima linea) contro l’accademismo di registi come Delannoy, Clément, Autant-Lara e, al contrario, assoluti protagonisti nella rilettura di autori angloamericani fino a quel momento invisi dalla critica: uno su tutti Alfred Hitchcock, definito per la prima volta maestro e intervistato proprio da Truffaut. Un lungo dialogo tra cineasti che diventa un libro straordinario (Il cinema secondo Hitchcock) sul fare cinema e sul vivere di cinema.
Quindi il salto del fosso, nasce la Nouvelle Vague: dalla carta alla pellicola. Truffaut mette del suo nella sceneggiatura di À bout de suffle (Fino all’ultimo respiro) di Godard, gira due corti ed esordisce al lungometraggio con I 400 colpi, dando il via ad un racconto per immagini personale e passionale.
Il film è marcatamente autobiografico senza esserlo esplicitamente. Il tredicenne Antoine Doinel, interpretato dallo sconosciuto Jean-Pierre Léaud, è un riassunto della devastante infanzia di François, ne porta i segni sul viso spaurito, sul corpo nervoso. Un cortometraggio e altri tre lunghi seguiranno il personaggio fino al 1979, concludendo con L’amore fugge una saga che non ha eguali nel cinema. Nondimeno il resto della sua opera attinge a ricordi ed esperienze, cesellati in sceneggiature che a loro volta non di rado pescano ai romanzi della formazione, da Jules et Jim a Le due inglesi (romanzi di Roché, di cui Truffaut divenne amico), da Fahrenheit 451 (Bradbury) a La sposa in nero (Irish).
Il rapporto con il cinema è viscerale, indispensabile come l’ossigeno per un broncopneumopatico. Da una parte la tecnica del raccontare che erediti la tradizione americana, così fondativa nell’idea di cinema di Truffaut (ma che lo porrà in antitesi dialettica con Godard, votato alla sperimentazione linguistica e alla decisa rottura dei canoni); dall’altra la possibilità di sviscerare un vissuto complesso attraverso lo schermo/specchio, mediante le lenti della macchina da presa. Così invischiato, Truffaut non può rinunciare all’autorappresentazione, trasformando il suo cinema in fantastico contrappunto della vita, rêverie, ma nel senso di sogno ad occhi aperti in cui trascinarsi e rivivere o lasciarsi vivere da (e in) situazioni che romanzano la vita stessa e la impreziosiscono. L’uomo che amava le donne è una rappresentazione dei costanti innamoramenti di François (“seduttore seriale” come lo definì Roché), soprattutto per le sue attrici. Donne trasformate dal cinema in oggetti del desiderio, come lo furono altre donne, altre attrici, altre dive, vagheggiate in adolescenza nel buio caldo delle sale d’essai. La malia per la “fidanzatina di Francia” Claude Jade, diciotto anni più giovane, piantata a un passo dall’altare, trasformata per incanto da amante a figlia; il matrimonio con la splendida Fanny Ardant, appena dopo La signora della porta accanto (1981, tre anni prima della scomparsa per malattia del cineasta in un autunnale 21 ottobre di trent’anni fa), film che diventa il laboratorio di un alchimista per trasmutare il desiderio in oro.
Permeabilità. L’arte si porta dietro la vita che non oppone nessuna resistenza, per fare dell’ordinario sistema delle tensioni quotidiane, uno straordinario teatro di passioni umane. Vedere Effetto notte, il più bel film sul cinema che sia mai stato realizzato.
Alessandro Leone