Ho visto Lunchbox due volte. La seconda volta a Mumbai, la prima al Torino Film Festival (che precedentemente aveva supportato il progetto attraverso il Lab). Dato il successo in patria, avevo pensato a un film in salsa di spezie cucinata a Bollywood. Invece, per rimarcare il fatto che in India ciò che appare spesso inganna, di quel cinema non si vede l’ombra. Si direbbe anzi un prodotto molto europeo o vicino alla commedia sofisticata americana.
Opera low-cost ma con un mito vivente del cinema indiano, Irrfan Khan (The Milionaire, Spider-man, Vita di Pi), il primo lungometraggio di Ritesh Batra, cresciuto professionalmente a New York, è storia d’amore che non trova compimento, sullo sfondo di una Mumbai poco vista in occidente: i quartieri popolari non si confondono una volta tanto con gli slum, che pure si articolano su gran parte della sua superficie e, di contro, sono assenti anche i lustrini delle commedie e le patinature di certi melò musicali. Mumbai non è enorme discarica né cartolina per turisti; semplicemente è il caos del traffico, l’indifferenza della massa indistinta, in una mescola di suoni, colori, odori, che sconcerta, disorienta, ubriaca. Baltra, tornato in India per girare il film, adesso a Mumbai ci vive e – come racconta – nella megalopoli si è ritrovato, portandone sullo schermo questa rappresentazione, cornice realistica della storia di Ila, Saajan e un lunchbox, contenitore cilindrico per cibi caldi, diviso in scomparti con pietanze diverse.
Il sistema dei lunchbox permette ogni giorno di servire più di 200000 pasti, che partono da centinaia di cucine per finire sui tavoli di impiegati dislocati in diverse zone della città: un sistema perfetto che non ammette errori, studiato nelle università americane (come afferma un addetto alle consegne, provocato da Ila), una sfida al dedalo delle strade di Mumbai. Ila e Saajan iniziano a scriversi e a conoscersi a distanza a causa dell’eccezione che conferma la regola, un errore incomprensibile che però crea un contatto umano profondo nell’inumano contesto metropolitano. Il cibo fa da collettore tra un uomo solo, a un passo dalla pensione, e una donna che è madre di una bambina in età scolare e moglie di un marito distratto da un’altra relazione. Nell’era informatica i due si scrivono a mano lettere che “imbucano” nel lunchbox, gustando la novità di sapori dimenticati.
Non siamo di fronte a un testo ricercato e costruito per sorprendere, nessuna frase a effetto, colonna sonora (di Max Richter) mai strabordante, regia invisibile. Semplicemente un plot che segue due personaggi romantici che – come nel più classico dei melò – devono presto fare i conti con l’impossibilità di rendere concreto il loro amore. Saajan, assopito da anni, si risveglia davanti a un’ipotesi affettiva che presto evapora come acqua bollente davanti alla giovinezza di Ila. Lei che lo attende in un ristorante mentre lui la osserva da lontano è un momento di rara poesia, sostenuto da un attore straordinario, capace di dare corpo a un uomo alle soglie della terza età. Sentendo nel mio bagno l’odore che da bambino associavo a mio nonno, ho capito ciò che lo specchio non riusciva a dirmi – scrive nell’ultima lettera a Ila. Due corpi diversamente impegnati a misurarsi con il tempo si frappongono alle affinità delle anime. Non una novità, ma la caparbietà di Ila e la capacità di emozionarsi di Saajan diventano epici in una città cinica e depressa, dove la vita umana spesso perde di valore e sopravvivere fino al tramonto diventa unico obiettivo possibile.
Alessandro Leone
Lunchbox
Sceneggiatura e regia: Ritesh Batra. Fotografia: Michael Simmonds. Montaggio: John F. Lyons. Musica: Max Richter. Interpreti: Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Denzil Smith, Nawazuddin Siddiqui. Origine: Ger./Fr./India, 2013. Durata: 105 min.