Era nella sezione opere prime del Sundance e, sempre negli Usa, al prestigioso Festival Internazionale di Seattle. Al 25th Tokyo International Film Festival, nella sua sezione, ha registrato il record di pubblico della storia del festival. A Dubai, in occasione dell’International Film Festival difendeva i colori italiani con l’ultimo Bertolucci, Io e Te. In autunno, al Torino FF, ha vinto il Mouse d’oro dei film italiani più votati da critica e pubblico web. Poi la marcia russa: San Pietroburgo, Mosca, Novosibirsk (in Siberia). Lì – in Siberia – lo vogliono acquistare, mentre il Visit Films di New York è al momento il sales agent che ne curerà la circuitazione.
Non è un miracolo. E’ semplicemente un film che funziona e piace a critica e spettatori senza distinzione di razza, estrazione sociale e genere. E’ L’ultimo pastore di Marco Bonfanti, una produzione milanese che ha costruito intorno al pastore nomade Renato Zucchelli un progetto cinematografico che ha il taglio del documentario creativo di narrazione. Una definizione coniata per distinguere i film di documentazione antropologica o etnografica di impostazione classica (e televisiva) da prodotti che rendono meno visibile il confine tra realtà raccontata nuda e cruda, senza interventi di sostanza, e rappresentazione della stessa attraverso artifici drammaturgici. Invero la vasta produzione di ibridi, opere che raccontano elaborando estetiche e poetiche del documentarismo del passato con grande libertà creativa, rende ormai sterile ogni definizione.
Detto dunque che L’ultimo pastore attinge alla straordinaria vita di Renato (e della sua famiglia) per farne da una parte racconto epico di un mestiere destinato a lasciare il passo all’allevamento intensivo e stanziale, e dall’altra metafora della resistenza di fronte alla folle cementificazione delle nostre metropoli, non è eretico affermare che la vicenda di un pastore nomade che parte dalle Alpi Orobie per conquistare Piazza Duomo a Milano ha del fiabesco (lo stesso corpo di Renato pare un personaggio di fantasia). Un’azione che non è una protesta gridata sulle note di Celentano. Anzi, il regista e il pastore concertano un corteo di pecore tra le strade milanesi che taglia il traffico cittadino, lo frastorna (ed è un paradosso), lo inquina con un copro modulare, lo sfida con ironia, solo per evocare – nel contatto con un gruppo di bambini in attesa nel cuore della città meneghina – la simbolica riappropriazione dell’elemento naturale. La domanda “Cos’è una pecora”, che aveva prodotto risposte fantasiose, davanti alla cattedrale si risolve con lo stupore dei bambini di fronte al gregge. I bambini appunto. Non i figli di Renato e della moglie “imprenditrice” che cerca di monetizzare un’attività anacronistica; piuttosto i figli degli altri, coloro che abitano lontani dagli spazi verdi, per cui la natura è un’eccezione e non la regola.
La prima parte del film, istantanea su un mondo atavico in cui Renato e il suo compagno di avventure si preparano alla discesa in valle, ha il fascino della storia che va custodita (la lingua segreta Gaì, ad esempio): i pastori che mobilitano a cavallo mille e cinquecento pecore, promettono di vestire i panni di Don Chisciotte e Sancho Panza in missione verso la metropoli che avanza. La seconda parte è invece sorprendente per chi ha dimenticato, o non ho mai visto, una strada di città occupata temporaneamente da un gregge in transito. Così l’attesa in auto è prima una forzatura che “provoca” la velocità dei ritmi urbani, subito dopo abbandono a una visione che dialoga con briciole di memoria sepolte in ognuno di noi: un rimando a centinaia di lune fa, ad odori e sapori di cielo e terra, suoni da un altro paese, che ci siamo ormai tristemente abituati a considerare oggetti alieni da un universo lontano. Perduto.
Alessandro Leone