Bisogna sforzarsi di perdonare a Luc Besson la superficie del suo film, per tentare di sviscerare il contenuto di quello che pare un fumettone fantascientifico. L’intreccio è esile: la venticinquenne Lucy (Scarlett Johannson), studentessa a Taiwan, ingannata dal suo nuovo compagno, è coinvolta nel traffico di una sostanza sintetica. A gestirlo è un’organizzazione malavitosa locale. La droga, che si presenta in piccoli granelli blu, per essere smerciata all’estero è conservata in buste di plastica chirurgicamente cucite sotto la cute del ventre di quattro malcapitati, tra cui Lucy. Quando però il suo sacchetto si rompe e il contenuto si discioglie nel suo sangue, Lucy inizia ad acquisire capacità straordinarie. La sostanza infatti (CPH4, prodotta dalle donne al sesto mese di gravidanza per accelerare la crescita del feto) amplifica le capacità del cervello, accendendo in tempi rapidi gli 86 miliardi di neuroni che compongono la materia grigia. Dalla telecinesi alla telepatia, dalla coscienza estesa alla manipolazione della materia, ogni area del cervello concorre a trasformare la ragazza in una sorta di dio. Nonostante il boss Mr. Jang (Choi Min Sik) tenti di farla fuori, Lucy riesce comunque a farsi aiutare dallo studioso di neuro-scienze dottor Norman (Morgan Freeman) che la invita a trasferire tutta la conoscenza, a cui la sua nuova condizione le permette di accedere, al resto degli uomini. Il tutto avviene in circa ventiquattro ore, tanto basta perché il cervello passi da un utilizzo del 10% ad un inimmaginabile 100%.
L’ennesima eroina della cinematografia di Besson questa volta è una donna comune che acquista super-poteri (che come ci ha insegnato la Marvel Comics equivale ad accollarsi super-responsabilità) senza peraltro esserne sedotta. La reazione di Lucy di fronte non tanto alla capacità di imporre la sua volontà a cose e persone, ma alla disorientante percezione del “tutto”, dal microscopico al macro, è chiedere aiuto. Il film di Besson, così compresso nella durata, così frenetico nei ritmi è costruito per l’azione e per definire alcuni concetti, per altro non nuovi, sull’evoluzione umana. Del mondo di Lucy emerge qualcosa solo in quell’unica parentesi (quasi fuori testo) in cui chiama la madre, sospettando una fine prematura, per ricercare un contatto a distanza in una bella rilettura delle trasformazioni del corpo infantile: le tensioni delle ossa che crescono sotto la pelle, i muscoli che si tendono, le sensazioni piacevoli dei tanti baci ricevuti, degli abbracci più caldi, ritornando indietro fino ai primi mesi di vita. Una memoria sensoriale che è poi alla base della crescita emotiva.
Tutto il resto è action. Ci sono sparatorie in luoghi pubblici (anche in un ospedale dove a nessuno sembra interessare una giovane con due fucili a canne mozze ben in vista!!), esecuzioni spietate, inseguimenti in piena Parigi (a un certo punto teatro dell’azione) con le classiche auto che saltano da una parte all’altra. Tutto poco credibile nelle dinamiche. Non soddisfano pienamente nemmeno le rappresentazioni del microuniverso neuronale tra esplosioni elettriche, corse sulle bande estese dei tessuti, immagini che sembrano già viste, come se il regista non riuscisse mai ad inventarsi mondi visivi davvero nuovi.
Allora tocca andare più in profondità per tentare di portarsi via qualcosa da Lucy. Converrà ripartire dall’alba dell’uomo (scordandosi però Kubrick), visto l’incipit del film e visto che Lucy è anche il nome dato all’Australopithecus Afarensis, e riflettere sui motivi che ad un certo punto hanno bloccato l’evoluzione del cervello dopo tante conquiste. Viene suggerita una ipotesi suggestiva nella deriva intrapresa dagli uomini quando hanno preferito percorrere la strada dell’avere anziché quella dell’essere, amplificando egoismi e corse al possesso, che hanno a loro volta generato conflitti. Una strada che ha impedito la crescita di intere aree celebrali quasi per preservare la specie: una sorta di autoconservazione altrimenti impossibile date le caratteristiche degli animali che vivono per avere. Una via dunque che ha occluso la possibilità di percepire il mondo in essenza, come un magma di particelle interconnesse e dove tutto si trasforma perennemente senza il giogo del tempo, impedendo di decifrare il proprio cammino come un costante meraviglioso ritorno all’origine. Non è un caso che alla fine del film Lucy si troverà di fronte all’australopithecus Lucy, prima di dissolversi nel cosmo ed “eternizzarsi”. Ciò che resta è una chiavetta usb contenente ciò che ha visto, sentito, percepito, tutto il mistero inconoscibile consegnato al dr. Norman, i cui contenuti rimarranno sepolti sotto i titoli di coda, in attesa di altro cinema che ne restituisca almeno una piccola parte.
Vera Mandusich
Lucy
Regia e sceneggiatura: Luc Besson. Fotografia: Thierry Arbogast. Montaggio: Julien Rey. Interpreti: Scarlett Johannson, Choi Min Sik, Morgan Freeman, Amr Waked. Origine: Francia/Usa, 2014. Durata: 90′.