Sembra un abito confezionato su misura, un oggetto di sartoria più che un film. Il corpo è quello pelle e ossa di Harry Dean Stanton, morto giusto un anno fa, a settembre, a novantuno anni; l’abito-film è Lucky, storia di un vecchio che, dopo una caduta senza conseguenze per il suo debole corpo, mette in discussione le certezze su cui ha costruito la sua vita per avviare un inevitabile dialogo con il mistero. Ben inteso, siamo nelle lande aride del sud-ovest americano, non nell’Europa luterana, va da sé che il vecchio Lucky, si interroghi sul presente e sul poco tempo che gli rimane da vivere rimettendo a fuoco gli spazi aperti e chiusi che ne hanno condizionato l’esistenza, fuori da qualsiasi impronta religiosa: il deserto, con pochi eroici organismi resistenti; il villaggio, come avamposto di frontiera ma senza più la suggestione del mito western della conquista; l’abitazione, perimetro mononucleare dove sopravvivere, reiterando rituali consolidati, toccati appena dalle mutazioni del mondo 2.0.
Scriveva James Hillman alla fine del secolo scorso che “il corpo, prima di diventare un cadavere nella bara, ha parecchie cose da dire all’anima” (La forza del carattere, 1999), e ciò che comunica non è solo un inno alla caducità, ma più precisamente un racconto nuovo che prende le mosse dalla fragilità quando diviene fenomeno irreversibile. Per questo domanda insistentemente al medico perché sia caduto improvvisamente, cercando una causa patologica che dunque implichi un percorso di cure e rimedi; il medico non può fare altro che guidarlo verso l’accettazione del lento disfacimento biologico che si chiama vecchiaia, l’incurabile effetto del tempo sulle giunture, sui tessuti, sugli organi, che si traduce nel bisogno di una strategia nuova. Il medico gli allunga un lecca-lecca, come quello che Baymax in Big Hero 6 regala al piccolo Hero dopo averlo esaminato e guarito: ecco, adesso che hai capito, succhia un lecca-lecca. E’ l’inizio di un viaggio, il film si trasforma in un on the road in the village, stanziale, senza spostamenti sulle highway che paiono filare dritte dritte verso il nulla, straight, proprio come nel film di un altro Lynch, David, (The Straight Story – Una storia vera), che qui compare nelle vesti di un amico di Lucky che non si dà pace per la scomparsa della testuggine Roosvelt, a cui vorrebbe lasciare la sua eredità.
John Carroll Lynch (che non è parente di David ma un caratterista affermato alla sua prima regia) di Una storia vera pare quasi raccontarne l’emisfero invisibile, il ritratto del vecchio fratello che il protagonista del viaggio sul trattore John Deere raggiungeva dopo 600 incredibili miglia in solitudine, tanto che a interpretarlo nel 1999 fu proprio Harry Dean Stanton, commovente nel cameo finale. Suggestioni, forse. Ma Lynchiani sono altri momenti del film: una spiazzante apertura in un cortile senza uscita, che nella notte attira il vecchio come falena verso la luce, sembra affacciarsi in Mulholland Drive: un luogo senza immagine, in cui si perde un altro amico con cui Lucky aveva scambiato poche battute. E poi i non casuali rimandi a Paris, Texas: Stanton che guarda nel vuoto mentre cerca soluzioni a piccoli enigmi incollato ad un telefono rosso; ancora, attonito di fronte a un cactus secolare in mezzo al deserto.
E ritornando a Una storia vera, la sceneggiatura si muove proprio come in un road movie, perché Lucky prende forma nuova ad ogni incontro: nel bar, nella tavola calda, sul ciglio di una strada, nel negozio di animali, nel suo salotto, tutti luoghi conosciuti, ma che dalla caduta in poi si trasformano in occasioni buone per capire qualcosa sul suo tramonto.
Le battute sono spesso in grassetto maiuscolo, in cerca della frase perentoria, dell’insegnamento, dell’unguento che rivitalizzi il corpo spento. Mancano della futilità profonda di Jarmush (di cui pure si sente la eco), ma al tempo stesso creano un sodalizio tra Lucky e la piccola comunità che, incredibilmente, sembra coesa nel traghettare il vecchio verso il deserto (si nasce soli, si muore soli). Invitato ad una fiesta messicana, è struggente la soavità con cui guarda una donna anziana ma non ancora vecchia, la gentilezza con cui ne assapora la bellezza senza proferir parola, intonando Volver. Ritorna una frase di Lucky in apertura, “realismo è saper accettare una situazione così com’é”.
Sempre a un mezzo passo dalla retorica spinta, il regista ci cade nell’ultima sequenza del film, lasciando al suo immenso attore il compito di salvare comunque questa parabola umana che intreccia al calar del sole la voglia di vita e la paura, limpida, cristallina, della morte.
Alessandro Leone
Lucky
Regia: John Carroll Lynch. Sceneggiatura: Logan Sparks, Drago Sumonja. Fotografia: Tim Suhrstedt. Montaggio: Robert Gajic. Musiche: Elvis Kuehn. Interpreti: Harry Dean Stanton, David Lynch, Ron Livingston, Ed Begley Jr., Tom Skerritt, Beth Grant, Yvonne Huff, Hugo Armstrong, Barry Shabaka Henley, James Darren. Origine: Usa, 2017. Durata: 88′.