Bud non era grasso, era grosso, tutto muscoli, anche la pancia sembrava di granito. I ciccioni italiani per vent’anni, tra i ’70 e gli ’80, si davano aria da Bud, mimando il “piccione”, pugno chiuso dall’alto al basso, a martello sul cranio ciondolante di qualche fetente.
Eh no, Bud Spencer – se permettete – non ammette imitazioni nemmeno adesso che non sono passati due anni dalla sua scomparsa. Ci si può giocare con il ricordo di bambino in Trinità o di Piedone sbirro buono con gli indifesi e castigatore di delinquenti; proprio come bambini, si può giocare ancora oggi a mollare schiaffoni “suonando” onomatopee che hanno rivoluzionato il pentagramma dei fonemi cinematografici. Per nulla parenti del timbro drammatico dei pugni enfatici del cinema di boxe, i cazzotti di Bud, complici le magie ginniche del quasi inseparabile Terence Hill, hanno disegnato coreografie iperboliche che fecero della coppia un duo di eroi popolari invincibili e impareggiabili (nonostante qualcuno ci abbia provato a far loro il verso). Sono quelle cose che nascono così, senza un vero disegno o una strategia di marketing. Altri tempi, i tempi in cui al cinema si poteva ancora scherzare con un’intuizione senza l’obbligo del successo clamoroso. Agli incassi ci si guardava, ovvio, ma non era questione di vita o di morte, soprattutto nel cinema di genere che si accontentava della serie B. Questo doveva essere Dio perdona… io no! (set che nel 1967 mise insieme per uno scherzo del destino Carlo Pedersoli e Mario Girotti). Invece fu l’inizio della più bella favola che il cinema italiano ricordi: il successo inaspettato fu bissato da I quattro dell’Ave Maria e poi, nel 1970, arrivò il predestinato cult Lo chiamavano Trinità.
Bud non voleva farlo l’attore. Era stato campione di nuoto e pallanuoto, ambiva a comparsare qua e là. Girotti, prima di diventare Hill, aveva recitato per Bragaglia, Bolognini, Pontecorvo, Visconti, non proprio gente qualsiasi. Poi si capisce che qualcosa deve essere andato storto (e dritto per noi), perché a fare film Bud Spencer ci prese gusto e anche a tirare pugni, facendo impazzire milioni di spettatori non solo in Italia ma in tutto il mondo. Proprio così. Per chi non lo sapesse i film di (nessuno si sognerebbe di dire con) Bud Spencer e Terence Hill sono oggetti di adorazione in ogni angolo del globo e Bud Spencer è l’idolo indiscusso e santino in migliaia di fans club. A dimostrazione basterebbe il documentario di Karl-Martin Pold che, non ci vuole un genio, non è italiano ma austriaco e che di Bud sembra l’agiografo.
Ecco, incredibilmente nessuno ci aveva ancora pensato a raccontare Bud (e di riflesso Hill). Per questo nel suo passionale Lo chiamavano Bud Spencer Pold ci racconta l’attore napoletano, da quando bambino frequentava la scuola con Luciano De Crescenzo ai successi sportivi, dall’esordio sui set all’esplosione con gli spaghetti western. Non è una semplice infilata di materiali di archivio e spezzoni di film (tra l’altro inchiniamoci perché non deve essere stata una passeggiata ottenere le liberatorie): il regista ventottenne, che all’attore ha dedicato due tesi universitarie, si inventa un divertente plot che vede due sfegatati ammiratori – uno biondo con gli occhi chiari e l’altro corpulento, moro e cieco – partire alla ricerca del loro eroe per regalargli una marionetta che lo ritrae. I due tentano di ottenere un incontro in occasione della presentazione in Germania della biografia di Pedersoli; poi si ritrovano in un raduno tra fans, una di quelle occasioni grottesche in cui ognuno si veste come un personaggio dei film, in ambientazioni che ricordano quelle dei film, con atteggiamenti mutuati dai film e che fanno ridere per quanto sono ridicoli. Ciò basta per fare coppia e partire on the road a caccia di Bud, attraversando mezza Europa, incontrando produttori, attori stuntman onnipresenti sui set, gli Oliver Onions, che di quei film scrissero indimenticabili colonne sonore.
Tra alti e bassi narrativi (perché la trovata a volte rallenta il ritmo del racconto), i protagonisti arrivano a Roma a due passi dal mito e… Il documentario va visto, ma siccome in Italia è ancora inedito dopo il passaggio alla Festa del Cinema di Roma, bisognerebbe menare chi dovrebbe distribuirlo e non lo fa, assestare un “piccione” dall’alto al basso dritto sul cranio o sulla spalla, fino alla resa, perché portare la storia di Piedone nelle sale italiane equivale una volta tanto ad assaporare un nostro prodotto d’origine protetta. E al cinema ci porterei figli e nipoti per lasciarli poi liberi di rovistare in videoteca, sicuro che lì andrebbero a pescare: nelle viscere di un mito che ha esorcizzato la violenza canzonandola e riducendola al tempo stesso a estremo rimedio per riparare i torti subiti dai giusti. Così erano Spencer e Hill, due americani per finta, giocherelloni che trattenevano un po’ di sana infanzia nei loro personaggi, non solo nei panni dei ragazzoni a cui avevano sfasciato le Dune Buggy e che si sfidavano a sperlunghe di salsicce, ma anche nelle vesti di poliziotti con superpiedi quasi piatti o di avventurieri in paesi esotici. E di Bud non è possibile buttare via niente, nemmeno quando ad Hill si sostituisce Giuliano Gemma o il più scarso Jerry Calà. Lui basta e avanza a riempire lo schermo e a darci una ragione per continuare ad amarlo, per desiderare di essere il bimbo da adottare in ogni episodio di Piedone, che rivisto adesso è forse il più datato dei suoi personaggi.
L’austriaco Pold riesce in ciò che un po’ tutti noi, che con Bud Spencer siamo cresciuti e che della sua etica semplice ci siamo alimentati, avremmo voluto fare: ringraziarlo un attimo prima dei titoli di coda.
Alessandro Leone