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Lizzani, giusto un’ultima occhiata prima di staccare la chiave

Non ce la sentivamo di pubblicare uno strillo nello slideshow. Non dopo aver già scritto brevemente della tragica scomparsa di Giuliano Gemma. C’è il rischio che diventi uno spazio necrologico la nostra home-page, ultimamente intendo. Istintivamente la notizia si modula sull’editoriale di ottobre, nel breve dichiararsi, prima come Ansa dopo come immagine di un volo che ha già antecedenti illustri. Carlo Lizzani si è suicidato, lanciandosi dal terzo piano: immediatamente si fa disturbo, interferenza nello scorrere scemo set del film Mamma Ebedegli atti teatrali del paese irracontabile (per vergogna) che è l’ultima Italia in ordine di apparizione. Basta affacciarsi sulla cronaca per sentire un flusso di calore acido, urticante, materico nell’atmosfera, e per questo deformante, lente insufficiente per distinguere i contorni del presente. Ancora Vita Agra.
Monicelli aveva chiuso a 95 anni con un cult spettacolare e al tempo stesso intimo, come certi Super8, che a furia di rivederli perdono colore fino a scomparire, fino al bianco luce a cui sarebbero destinate tutte le immagini su pellicola. L’ultimo film di Lizzani, come quello di Monicelli, è pensato scritto girato montato proiettato e dissolto in uno spazio e in un tempo inaccessibili al pubblico, sottratto all’ingordigia della critica, che per una volta toglie il cappello e china il capo in segno di rispetto. Che l’intelligenza prevalga almeno questa volta, che Lizzani non finisca in parlamento, risucchiato e banalizzato dalla retorica sinistra come avvenne tre anni fa dopo l’addio dell’altro maestro. Non era Celluloide.
A dire il vero, non credevo che i maestri si togliessero la vita, ma che semmai si allontanassero, dopo aver rassicurato i discepoli sulla bontà dei cicli vitali, verso la montagna sacra o, al limite, che si lasciassero cadere in un buco nel ghiaccio artico, come in Nord di Rune Denstag Langlo. Invece, questi salti mortali pennellano senza dialoghi l’immagine di un rifiuto non scritto in sceneggiatura e, dunque, sorprendente: un’improvvisazione solo in apparenza, tanto per ingannare il pubblico, per raccontargli una volta in più che l’idea del regista è sempre più profonda di quel che appare sulla superficie dello schermo. Diamoci pace una volta per tutte!
Monicelli apparve subito “trasfigurato” nel suo cinema con un coup de théâtre, riuscendo ancora una volta a raccontare l’Italia contemporanea: squallida, abietta, provinciale, in perenne crisi di identità perché incapace di confrontarsi con la modernità, vecchia perché impaurita dalle voci e dalla vitalità dei giovani, che la gerontocrazia vorrebbe perennemente servi ignoranti. Questo lo diceva urlando, dietro i suoi occhiali rosso fuoco in tutte le ultime interviste televisive. Acthung! banditi ..
Di Lizzani, meno appariscente, meno arrabbiato forse , con quei modi gentili e signorili, potremmo immaginare la forma di quella chiave non ancora staccata – come scritto nel suo ultimo appunto – e della serratura che la sposava. Allora si tratta di arrampicarsi fino alla sua Montagna Sacra (il suo cinema), per tentare di sbirciare con un solo occhio dall’altra parte di quella serratura, cercando i segni di uno scricchiolio, per afferrare le ragioni con la ragione di un investigatore. Perché il problema è il nostro che rimaniamo con il solito, indigesto, finale aperto, che per natura – come la morte – non è mai consolatorio. Certo… Vita Agra.

 Alessandro Leone

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