Quello dell’infanzia è un universo ancora avvolto in un alone fiabesco, per certi versi mistificante. Spesso si tende a considerare il bambino una sorta di tabula rasa, una creatura immatura semplicemente perché deficitaria di esperienza. In realtà, la mente del fanciullo è diversa qualitativamente, al punto che i suoi predicati sembrano non corrispondere al soggetto e le azioni esprimere la condizione stessa dell’io: un «io» oscillante, proteso alla differenza, al molteplice, al movimento, a scapito dell’unità d’insieme. Parlare dell’infanzia nella sua vera natura implica perciò problemi teorici complessi, specie se s’intende trasporne le peculiarità psicologiche al Cinema, non solo per la quasi totale assenza del cosiddetto «tempo astratto», ma per l’evidente instabilità degli «istanti equidistanti» alla cui base sta tanto la fluidità del movimento illusorio prodotto dal susseguirsi dei fotogrammi, quanto l’espressione di dinamicità ispirata dalla singola istantanea: ciò che Deleuze definisce il «momento qualsiasi», il quale non è concepito dal bambino in relazione a un prima e un poi cronologico, ma riguarda un progredire tutto potenziale che può dare luogo a svariate evoluzioni, se non addirittura a più cambiamenti simultanei. Mentre il «momento qualsiasi», infatti, suggerisce un orientamento di variazione preciso, l’intenzionalità infantile è del tutto imprevedibile, si realizza cioè nel corso della manipolazione stessa, esprimendo cambiamento e conoscenza del cambiamento nel medesimo istante. La cosa interessante è che se nei primi mesi della sua vita il fanciullo sperimenta attraverso l’azione diretta sugli oggetti, con lo sviluppo cognitivo impara ad agire sulle idee trattandole come fossero materia, col risultato di produrre una coincidenza pressoché perfetta tra fantasia e realtà.
Cría cuervos di Carlos Saura coglie perfettamente questo aspetto. Il film narra di una bambina che assiste alla morte del padre, colto da infarto durante un rapporto sessuale adulterino. La piccola è molto legata alla madre e quella morte le appare più che meritata, tanto da convincersi di essere stata lei stessa a provocarla, grazie a una presunta polvere velenosa disciolta nel bicchiere d’acqua che il padre era solito tenere sul comodino. Saura ha il merito di mettere lo spettatore nella prospettiva della bambina facendogli credere quello che lei immagina, ossia di essere il soggetto manipolatore della vicenda, l’artefice degli eventi. L’equivoco è risolto solo alla fine del film, quando la piccola tenta di uccidere allo stesso modo la zia, rea di essersi voluta sostituire alla madre, fallendo però nell’intento e rivelando l’innocuità della polvere. Questa forma di narcisismo infantile era già stata messa in scena nel 1952 da René Clément in Giochi proibiti. Qui la protagonista è Paulette, una bimba rimasta coinvolta insieme ai genitori in un attacco aereo tedesco. Ciò che sorprende subito lo spettatore è il comportamento affettivamente distaccato della bambina, la quale preferisce prendersi cura del proprio cagnolino morto, piuttosto che rimanere al fianco di papà e mamma, stesi esanimi sul ciglio strada. La scena, oltre a ridiscutere le sopravvalutate teorie bowlbyane dell’attaccamento, ha il merito di focalizzare l’attenzione sul peculiare criterio dei bambini di vivere l’emozione, da cui deriva quel crudele estro che tanto hanno affascinato letteratura e Cinema. Paulette incontra in seguito Michel, un ragazzino di undici anni figlio di contadini locali, da cui apprende che il cagnolino che tiene ostinatamente in braccio è morto. I due decidono allora di seppellirlo e di creare un cimitero per animali. Pur di accattivarsi la simpatia dell’amichetta, Michel comincia a uccidere di sua iniziativa le più svariate bestiole, dichiarando di averle già trovate morte, finché non si mette nei guai nel momento in cui decide di rubare alcune croci dal camposanto del paese per impreziosire il proprio. Clément mostra la macabra spietatezza dei bambini in tutto il suo inquietante candore, descrivendola come una sorta di volontà di potenza, in cui l’evento casuale che ha innescato il meccanismo del gioco, ossia la morte del cagnolino, è manipolato e riproposto a forza con la morte «casualmente provocata» di altri animali.
Il fanciullo, infatti, non imita l’adulto secondo i criteri dell’«uomo oggettivo» nietzscheano, non copia passivamente la realtà, ma si comporta come un piccolo demiurgo, producendo ri-creazioni atemporali di mondi in cui il «poi» è solo una condizione di possibilità, non di causa. Il suo balzare da un ruolo all’altro è dotato di un estetismo dai connotati marcatamente esibizionistici che ricordano molto da vicino gli incoerenti travestimenti di monsieur Oscar di Holy Motors, al punto da dare l’impressione sottendere un pensiero organizzato su più livelli, che contrasta tanto con la sistematicità sintattica del linguaggio adulto quanto con l’organicità insita nel principio degli «istanti equidistanti». Come suggerisce René Girard a proposito della scena notturna di Sogno di una notte di mezza estate, nella mente del bambino le immagini sembrano entrare in competizione tra loro e susseguirsi in modo così accelerato da sovrapporsi le une alle altre, dando origine a una figura disarmonica, deforme. L’amore infantile per i mostri deriva proprio da tale differenza sostanziale nel vedere e pensare la realtà sulla base di «vedute istantanee» svincolate dall’unità di tempo. Benché immerso nel quadro, lo sguardo fanciullesco è sempre proteso verso altro, senza che l’oggetto osservato implichi uno «stato primitivo» o una «tendenza nascosta» svelabile mediante l’evoluzione temporale dell’oggetto. Il cambiamento si esprime sulla spinta di interventi arbitrari, simili a quelli con cui il personaggio di Alexander di Bergman associa affetti e paure a persone reali, legate tra loro da complessi vincoli relazionali e inserite in scenari che appaiono luminosi e cupi a seconda dell’emozione primaria o secondaria sottesa. L’immaginario di Alexander è un crogiolo traboccante di dettagli che trova il suo corrispettivo nella bottega colma di cianfrusaglie del vecchio rigattiere ebreo, da cui il sogno sembra prendere origine.
Ma è con Tideland di Terry Gilliam che l’immaginario infantile trova l’espressione più riuscita. Il film, molto sottovalutato dalla critica, non mette solo in scena le fantasie bizzarre di Jeliza-Rose, ma si serve altresì, grazie a un abile gioco di camera, di un linguaggio allucinato che restituisce la realtà nella sua precarietà semantica, nella sua afenomenica emotività. Jaliza-Rose è un prisma che filtra la luce pallida della coscienza unitaria frammentandola in un’esplosione di colori e fantasie audaci di fronte alle quali lo spettatore rimane sconcertato. I malumori suscitati da questa pellicola vanno, a mio avviso, attribuiti a tale andamento visivo disorientante.
Non basta mettere in scena dei bambini per parlare dei bambini. Per quanto dotate di smisurato valore artistico, opere del calibro di Ladri di biciclette, Sciuscià o Oliver Twist non parlano dell’infanzia, ma dell’infanzia vista attraverso gli occhi degli adulti. Di fronte ai ragionamenti infantili, in cui l’antinomia non solo è tollerata ma addirittura auspicata, in cui la distanza tra le istantanee resta incolmabile, in cui la realtà è narcisisticamente ricomposta secondo un divertimento amorale e soggiogante fino alla spietatezza, e il fare è più importante del pensare, l’adulto sembra brancolare atterrito come il sant’Antonio di Grünewal, in balia di tentazioni inconfessate ed emozioni disgreganti.
«Ciò che fa ridere i bambini rischia di far paura ai grandi», dice re Ubu di Alfred Jarry. Si tratta però di un riso di speranza che l’adulto ha il dovere di riscoprire: crudele perché proteso a un cambiamento radicale, nel quale il soggetto smette di essere un individuo dominato e si apre alla «coestensività nomadica» di un sé da «forsennare», scevro da moralismo e da pregiudizio.
Manuel Farina