Arriva sempre un po’ tardivo l’Oscar alla carriera. Nel caso di Lina Wertmüller arriva a 91 anni, novantuno!!! Come se l’Academy si fosse svegliata improvvisamente in una notte di caldo da indigestione e, ad occhi spalancati, si fosse ricordata di quella piccola italiana entrata nella storia del cinema non solo per essere stata la prima donna a venir candidata all’Oscar per la miglior regia (42 anni fa Pasqualino Settebellezze fu in lizza per quattro statuette), ma anche per i suoi film. I film, i film, i film, quegli oggetti di cui il costume e le cronache mondane spesso si dimenticano e che sono la sostanza dell’arte cinematografica. Femminista ironica, sguardo divergente, sprezzante delle regole di un universo cinematografico maschile, negli anni ’70 la Wertmüller ha segnato un immaginario che ancora si cibava dei generi rivisti “all’italiana”, inserendosi nell’alveo della commedia graffiante con un occhio alle trasformazioni sociali e politiche.
Quest’Oscar, che non conta solo se non lo hai in bacheca ma che poi certifica ai posteri i maestri d’arte, è nettamente maschio, non solo perché il cinema è stato (ed in parte è ancora) sbilanciato verso gli uomini nelle figure autoriali, ma anche nella forma estetica. “Chiamiamolo Anna” allora, ha detto la Wertmüller, impegnata ancora e sempre nell’abbattere le barriere di genere, dedicando il riconoscimento alla figlia e al marito, affiancata sul palco della Ray Dolby Ballroom di Los Angeles da Jane Campion, che l’Oscar lo ha vinto con Lezioni di piano e Greta Gerwig, icona del movimento mumblecore e passata alla regia con Lady Bird, film che ha meritato due candidature, sceneggiatura e regia.
Una serata al femminile dunque, con un premio anche a Geena Davis, altra donna impegnata nella lotta per le pari opportunità e l’eguaglianza di genere. Dunque perché non chiamare Anna un Oscar e magari arrotondarlo nelle forme. Un Oscar più grazioso e femminile. Perché no.
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