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Licorice Pizza

P.T. Anderson e i folli Seventies

Vive in una terra di mezzo tra Vizio di forma e Boogie Nights l’ultima follia di Paul Thomas Anderson, correndo sulla direttrice degli anni Settanta in California come una biglia ubriaca su un piano mobile. Licorice Pizza è una sfrontata dichiarazione di libertà figlia dei fiori, dell’acido lisergico, della musica in vinile e poi della Disco, del cinema di retroguardia, quello a un passo da Hollywood dei baby attori prodigio, o quello a cento passi, ansimante tra i divanetti del porno in pellicola. Del 1970 psichedelizzato dal post-modernismo di Thomas Pynchon, sfidato da Anderson nella trasposizione (che sembrava impossibile) di Inherent Vice, Licorice Pizza trattiene delle eco nelle fantasmagorie colorate della fotografia che diventa forma visiva, ma poi anche nei singhiozzi del racconto, che procede senza apparente struttura (canonica), infischiandosene dei crescendi, dei turning point, dei climax, degli ancoraggi per il pubblico, e quindi degli applausi a scena aperta, che non ci sono in sala e non ci sono stati la notte degli Oscar, quella che nessuno ricorderà per i premi, ma per una fantarissa a cavallo tra due mondi. Proiettato, al contempo, verso il margine alto dei Seventies, Licorice sfiora in maniera sintomatica l’apparato di senso di Boogie Nights, laddove nella trasformazione dell’industria audiovisiva il regista profetizzava la miopia dello sguardo, l’incapacità di orientare l’occhio per distinguere ciò che è arte da ciò che è spazzatura, con uno spostamento sistemico atto a produrre serialità di bassa lega. Quello che a tutti gli effetti farebbe pensare a un divertissement – un film che sembra nascere privo di quelle velleità che aveva Il filo nascosto, capolavoro di eleganza e di compattezza narrativa – fonda la sua scommessa proprio nella negazione dei paradigmi del racconto cinematografico (classico) americano, allorché il valore dell’opera non passa obbligatoriamente dall’articolazione della trama, ma dall’articolazione del campo visivo: sedurre l’occhio per arrivare alla sostanza, lasciando inizialmente libero il cervello.

Gary (Cooper Hoffman), quindici anni, si innamora perdutamente di Alana (Alana Haim), che ne ha venticinque. Lui fa di tutto per conquistarla, lei resiste perché lui, anche se non sembra, dovrebbe essere un bambino: intraprendente, già attore navigato e confidente con lo spettacolo di massa che produceva a Hollywood baby stars a nastro, pronte per il salto di costellazione o per il buio dell’anonimato, si inventa imprenditore nel giro dei flipper e prima ancora dei letti ad acqua (sarà un caso che papà Philp Seymour interpretò un materassaio in Ubriaco d’amore?).
Tutta qui la trama di Licorice Pizza, che però nell’intercapedine contiene oggetti non ben identificati che spezzano la superficie della storia, enigmatici come l’armonium che atterra davanti ad Adam Sandler (sempre in Ubriaco d’amore) o alla pioggia di rane che chiude Magnolia. Nel loro tira e molla, i due protagonisti, correndo, sempre correndo con l’energia della gioventù, dopo il primo folgorante incontro, giocano con lo spazio che li separa, febbricitanti e turbati dal desiderio, annegati nella palette accesa della San Fernando Valley, vero luogo della memoria (e quindi dell’anima) di Anderson. Se siano le strade della sua infanzia poco importa, come pure il fatto che Gary sia esistito davvero; la verità oggettiva non è interessante quanto il connubio tra ricordi di bambino e bugie raccontate dal cinema. La storia d’amore, anzi di educazione all’amore, si spezzetta così in frammenti anche grotteschi, dove la norma è incontrare star del cinema come Jack Holden (che poi sarebbe William), sparato direttamente dal set di Breezy di Eastwood, o l’attrice comica e produttrice Lucille Ball, o Jon Peters, parrucchiere produttore di Barbara Streisand, tutti sovraccaricati, oltre i limiti dell’immaginazione, bigger than life, non per niente interpretati da mostri sacri come Sean Penn e Bradley Cooper, corpi da percepire come estranei vicini agli esordienti superlativi Cooper Hoffman e Alana Haim. Incontri che dovrebbero servire la continuità di un percorso formativo dei due quasi amanti fino all’abbraccio consapevole, e invece sono episodi che deviano nevroticamente, che lavorano per accumulazioni aneddotiche, dipingendo però uno spaccato culturale mitizzato come ogni luogo della memoria (quasi una “California Graffiti”) e dove i due protagonisti inciampano per ripartire a suon di musica. Da imperativo, ogni episodio è accompagnato da una scaletta musicale strepitosa, e pare di vederli i 45 giri, le piccole “pizze alla liquirizia”, usciti direttamente dal leggendario negozio di dischi californiano, il Licorice Pizza appunto, per finire in un jukebox e suonare per intero nelle inquadrature del film, dialogando con i personaggi e con lo sfondo, anche con gli eventi storici importanti che affiorano, pure questi come schegge, nel film: le contestazioni, le trasformazioni politiche, la crisi petrolifera.

Bisogna lasciarsi ipnotizzare per godere fino in fondo di questa biglia ubriaca, lasciare fare all’occhio e all’orecchio, scivolare dentro le inquadrature che sono sempre – anche quando non lo sono – campi e controcampi tra gli sguardi di Alana e Gary: dalla prima scena (bellissima) dell’amore trasfigurato, alla corsa in discesa con un camion in retromarcia, passando per la telefonata muta o per il riposo su un materasso ad acqua, o per certe immagini del trailer che poi nel film non ci sono (tanto per capire quanta follia ci ha messo Anderson). Esserci nel quadro: farsi sedurre dai movimenti dei corpi nello “spazio andersoniano” tra superficie e profondità, dalla qualità della grana intesa come tessuto fotografico su cui raccontare, dai lampi di luce colorata che sono già microstorie in un racconto che non deve obbligatoriamente essere epico: un quindicenne incontra una venticinquenne e se ne innamora perdutamente, lei tenta di resistergli. Stop.

Alessandro Leone

Licorice Pizza

Regia e sceneggiatura: Paul Thomas Anderson. Fotografia: Paul Thomas Anderson, Michael Bauman. Montaggio:  Andy Jurgensen. Interpreti: Cooper Hoffman, Alana Haim, Sean Penn, Bradley Cooper, Tom Waits, John C. Reilly, Benny Safdie, Emma Dumont. Distribuzione: Eagle Pictures. Origine: USA, 2021. Durata: 133′.

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