Avevamo salutato il maestro Haneke con commozione, nel terribile e così giusto finale di Amour. Lo ritroviamo qui in una linea di continuità narrativa e tematica, in un film a tratti enigmatico, dove ancora una volta il gioco crudele fra vita non voluta/voluta e morte voluta/non voluta, cerca la sua impossibile risoluzione nella impossibile ricerca di senso dell’uomo moderno, o meglio, più prosaicamente, dell’alto borghese europeo odierno. Ma in un ribaltamento di linguaggio che tira verso la commedia triste e sardonica, in un’allegria nera e profondamente pessimista che per converso sembra animata da uno strano vitalismo, come un condannato a morte che balla da solo, e fa battute.
Dopo un prologo fra i titoli che non riveliamo, la vicenda vera e propria si snoda a partire da un incidente nel quale un crollo inaspettato all’interno di un cantiere, nei pressi di Calais in Francia, trascina con sé uno di quei servizi igienici in plastica dove tutti evitiamo di andare quando possibile. Scopriremo poco dopo che all’interno c’era un malcapitato, ma la vicenda è soltanto una delle tre principali, ed è, come le altre, solo strumentale, parziale, anche velleitaria, una delle strade per raggiungere questa famiglia alto borghese artificiosa, forse metafora della “famiglia” intera dell’upper class europea, che sembra essere in questo un sunto dei vizi e delle psicosi, fra tentati suicidi, inadeguatezza al compito designato ereditariamente, vuoto di senso delle vite, del sesso, assenza d’amore per i figli.
Non ci paiono tematiche nuove, come non nuove ci sembrano le letture e i punti di vista che l’autore vuole darci attraverso i suoi personaggi, che nella disgregazione narrativa (Haneke segue a singhiozzo quasi tutti i personaggi della saga famigliare) non si riescono a mettere bene a fuoco, e a toccare, e sembrano figure funzionali al racconto, maschere da commedia dell’arte in un adeguamento ai tempi. Un cast eccezionale – dalla Huppert a Trintignant, da Kassovitz a Toby Jones – asseconda senza strafare il lavoro dell’autore: non regala picchi d’emozione ma lo fa con un rigore encomiabile.
In questa opera diversa dalle precedenti, dove il tono da commedia senza umorismo o da dramma grottesco sembra abbracciare la tragedia, senza mai afferrarla, interessante e da vedere è il lavoro sul linguaggio, sia quello narrativo, sia quello visivo. Haneke sceglie con cura cosa mostrare e cosa lasciare fuori, nascosto ai nostri occhi, imponendoci di fare sintesi, in una lezione di cinema molto rigorosa, dove quello che non serve, semplicemente non c’è. L’intenzione di comporre un racconto grottesco, che vira alla commedia, la ritroviamo dichiarata in modo elegante quasi subito in una sequenza, quella della cena di famiglia, dove ogni personaggio adulto nel dialogo a più voci, viene ritratto in primo piano, con ottiche grandangolate, che danno una leggera deformazione, e dichiarano un intento di senso. E Haneke non perde l’occasione per riprendere il discorso a lui caro sui media , sulle possibilità di sguardo con la tecnologia digitale, discorso già esplorato in altri film, Caché (Niente da Nascondere) e Fanny Games su tutti, questa volta nelle mani di una ragazzina che usa un cellulare come diario di bordo della crudeltà di cui si rende protagonista e del desiderio di morte cui assiste indifferente, come consapevole che quella sia l’unica dimensione umana possibile per lei e per le persone, irreparabilmente incapaci di amare – come lei stessa dice freddamente al padre – che la circondano.
Quello di Haneke è un ghigno trattenuto o sorriso da aguzzino, che non tralascia di inquadrare sullo sfondo, per figurine, quel resto del mondo che sta lì accanto – i dipendenti stranieri, la classe operaia perdente, gli extracomunitari che cercano riparo a Calais nella speranza di salvezza Oltremanica – che la borghesia pasciuta sembra considerare alla stregua dei fiori, dei cani, degli attrezzi, anche dal punto di vista umano – ne conoscono le passioni ma non possono sentirle – inessenziali al racconto e per questo tracciati in modo rigido, semplificato, anche goffo, a mimare lo sguardo degli stessi protagonisti del film, che forse vuole dirci Haneke, alla fine, siamo anche noi.
Massimo Donati
Happy End
Sceneggiatura e regia: Michael Haneke. Montaggio: Monika Willi. Interpreti: Isabelle Huppert, Mathieu Kassovitz, Jean-Louis Trintignant, Nabiha Akkari, Toby Jones, Dominique Besnehard. Origine: Francia/Austria/Germania, 2017. Durata: 107′.