Dietro un melodramma c’è sempre una scommessa che si riverbera sulla narrazione e dalla narrazione al pubblico. La convinzione che ancora oggi la commozione sia l’apparato respiratorio dello spettacolo cinematografico, poi (o forse prima) un’altra convinzione: ovvero che il melodramma non sia mai passato di moda perché non è mai stato un genere, perché connaturato allo stesso spettacolo cinematografico. A maggior ragione strappa un applauso un melodramma dichiarato che non sia reiterativo, che riesca a raggiungere lo spettatore come fosse una storia mai sentita o vista in sala, con una sapienza strutturale ed estetica che, pur apparentandosi a certi mostri sacri (in questo caso siamo nei paraggi di Fassbinder e Wong Kar-wai), trattiene grande originalità. Questo è La vita invisibile di Eurídice Gusmão diretto da Karim Aïnouz, regista brasiliano sconosciuto in Italia ma autore di numerosi documentari e film a soggetto che si distinguono per cura dell’immagine e profondità di racconto. Premiato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, trasposizione del romanzo di Martha Batalha, da noi pubblicato da Feltrinelli con il titolo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione, titolo intelligente ma che toglie un elemento essenziale sentito visceralmente nella società brasiliana (e non solo) degli anni 50, il film racconta due sorelle che, percorrendo strade diverse, si perdono ma rimangono legate da amore simbiotico, nell’attesa perenne di potersi ritrovare.
Siamo negli anni 50, appunto, gli anni in cui il tedesco Douglas Sirk naturalizzato americano sta raccontando splendori e vizi della società statunitense ancorata a un’idea di famiglia basata sulle definizioni dei ruoli e dei comportamenti che devono distinguere i generi, cioè le fondamenta della borghesia conservatrice e patriarcale. E mentre Sirk, partendo dall’osservazione della sua America, confeziona magnifici melodrammi che diventeranno manuali di cinematografia, a Rio de Janeiro si consumano drammi assai simili. L’agiata famiglia Gusmão, guidata con fermezza dall’uomo di casa (Antònio Fonseca), la cui moglie altro non è che ancella servizievole che forse nella vita ha ingannato se stessa mortificando i suoi sogni, vive in una calma apparente fino a quando la figlia maggiore, la ventenne Guida (Julia Stockler), non decide di seguire un marinaio greco, convinta di aver trovato il vero amore. Sedotta e abbandonata torna incinta, vorrebbe essere perdonata e riabbracciare l’amata sorella Euridice (Carol Duarte). Il padre la ripudia e la invita a lasciare per sempre casa Gusmão, dimenticando Euridice che ha raggiunto l’Austria per coronare il sogno di diventare una grande pianista. Una menzogna: Euridice in realtà è stata data in sposa ad un uomo che non ama e che presto, e contro la sua volontà, le darà una figlia, bloccandola al ruolo prematuro di madre. Guida, che dovrà arrangiarsi nei bassi fondi di Rio salvata da un’adozione che ha del magico, inizierà a scrivere alla sorella lettere che vengono sistematicamente nascoste dai genitori. Così le due ragazze, inconsapevoli di vivere nella stessa città, continueranno a sognare una il ritorno dell’altra.
Per un regista cresciuto ai tempi delle dittature sudamericane, in un clima esasperato e dominato, ancora negli anni 70, da uomini padroni, il romanzo di Martha Batalha si offre come testo fondamentale per raccontare per vie nemmeno tanto traverse un’esperienza personale, nel ricordo di una nonna e le sue sodali sorelle, protagoniste di un precedente documentario, e di una madre single tanto affine al personaggio di Guida. La vita invisibile di Eurídice Gusmão è un film che scava con delicatezza nel femminile, ascoltando le due donne, assecondandone i sogni, stringendole affettuosamente negli incidenti di percorso, sospendendo giudizi e senza fare morali, prendendo atto dell’audacia sfacciata di Guida che sfidò il padre e il destino, quasi eroica in una società che alle donne scriveva il destino già con l’atto di nascita; e, in perfetta sincronia, patendo dei dolori di Euridice perennemente in lotta intestina con i maschi della sua vita: sottomessa prima al padre e poi al marito, che le cose in chiaro le mette sin da subito in una prima notte di nozze che non le lacera solo la verginità, ma in un amplesso meccanico che non ha carezze ma nasce visivamente dall’erezione del pene, inquadrato incombente in primo piano, vorrebbe lacerare la sua resistenza e spegnerne ogni desiderio che non sia a servizio della casa. La concessione di un pianoforte e delle lezioni diventa presto un’agonia, il sadico sventolare un sogno che il marito ha escluso di poter concretizzare.
Proprio la partitura sonora assume un ruolo decisivo nel racconto di Euridice, tanto quando è lei a suonare, tanto quando la musica esce dalla diegesi per raccordare Euridice con Guida, esasperando ulteriormente la tragedia che ha spezzato il loro amore. Il film lavora sull’angoscia esistenziale e costruisce simmetrie precise tra le due sorelle, una a caccia dell’altra, entrambe con la sgradevole sensazione di essere state abbandonate dall’altra metà. La prima magnifica scena del film girata in una foresta umida con dettagli su una natura indifferente ai patimenti umani e le due sorelle che si perdono tra suoni spettrali, sin troppo scopertamente mette en abyme l’intero film. Ma è da quel momento in poi che Aïnouz inizia a fare miracoli, perché anche ciò che nello snodarsi degli eventi risulta scontato invece sorprende, perché la macchina da presa immagina, filma, restituisce pezzi di intimità che nello squallore del contesto proletario (in cui comunque rinasce Guida) e nella dozzinalità borghese (in cui affonda Euridice) emergono come poesia. Le vite invisibili (quanto è importante l’aggettivo nel titolo originale) di due donne che avrebbero voluto fare rivoluzione (riferimento al titolo del romanzo in versione italiana) procedono in rime incrociate, ora baciate, ora incatenate nei rispettivi desideri di ritrovarsi, mentre la vita scorre crudele, delineando – come spesso avviene al cinema – l’esasperante convivenza di due flussi temporali, quello fermo dell’eterno ritorno senza ritorno, che promette riconciliazioni e lascia sospesi in eterno presente; e quello che incede, segna i corpi, ammucchia esperienze su una direttrice rettilinea, aiòn sottomesso a chrònos, il flusso degli eventi che si ingoia due vite e ne dispone.
Carol Duarte e Julia Stockler sono perfette, concrete ed eteree al tempo stesse, colorate dalla tavolozza sofisticatissima di Hélène Louvart, che quando serve satura fino a confondere i margini tra realtà e sogno, accentuando il dramma personale con contrasti chiaroscurali e passaggi poetici dal buio alla luce, simbologie di vite affrante non dal destino ma dalla caparbia resistenza di un mondo antico ma non per questo giusto.
Il film nel 2019 arriva a Cannes (insieme ad altre due pellicole brasiliane) nel momento forse più difficile per la cinematografia del paese, quando tutte le attività dell’Agenzia Cinematografica Nazionale sono state sospese, conseguenza dello spregio del nuovo governo eletto nei confronti della cultura in generale. Sarà anche per questo che verso la fine della proiezione l’apparizione di Fernanda Montenegro, ormai novantenne (l’abbiamo amata in Central do Brasil, ma io la ricordo nell’unica telenovela che ho seguito in adolescenza, Cara a Cara), diventa l’emblema improvvisamente di tutto il cinema brasiliano e di quel modo di emozionare il pubblico, anche quando è stato Cinema Novo di rottura, che tra telenovele e autorialità arriva sempre al cervello e al cuore. Viva il melodramma.
Alessandro Leone
La vita invisibile di Eurídice Gusmão
Regia: Karim Aïnouz. Sceneggiatura: Murilo Hauser. Fotografia: Hélène Louvart. Montaggio: Heike Parplies. Musiche: Benedikt Schiefer. Interpreti: Carol Duarte, Julia Stockler, Gregório Duvivier, Barbara Santos, António Fonseca, Flávia Gusmão, Fernanda Montenegro. Origine: Brasile, 2019. Durata: 139′.