Prologo: Ken Park con il suo skate si ferma al centro di una pista. Posiziona la sua videocamera, in modo da inquadrare se stesso in primo piano. Afferra una pistola e si suicida.
Epilogo: Ken Park ha messo incinta la sua ragazza, lavora in un fast-food ed è schiacciato dalle responsabilità.
Questa la cornice che inquadra quattro storie di raccapricciante attualità.
I kids di Larry Clark
Procediamo con ordine. Larry Clark approda al cinema dopo un passato da fotografo “erotico”. La sua opera prima, Kids, esce in Italia nel ’97, dopo aver diviso la critica due anni prima a Cannes. Racconta di una quattordicenne, che scopre di aver contratto l’Aids da un coetaneo, la cui principale attività è quella di avere rapporti sessuali con giovani ragazze vergini. Nel tentativo di informare il ragazzo, la giovane, dopo aver vagato nello squallore di strade, locali e abitazioni, tra ragazzi capaci solo di sballarsi e abbandonarsi al sesso usa e getta, finirà in un festino dove un altro ragazzo abuserà di lei.
Nel 2001 aVenezia, Clark presenta Bully che, liquidato con sufficienza, non viene distribuito nelle sale (a causa dell’overdose di sesso e violenza?). Rispetto a Kids, la fascia di età è diversa (giovani di 17-18 anni) e lo sfondo non sono più le strade sporche di New York, ma le spiagge della Florida. Ispirato ad un fatto di cronaca, il film descrive il rapporto morboso di due “amici”, Bobby e Marty, impegnati a girare filmini porno-gay per racimolare qualche soldo. Marty, vittima delle prepotenze di Bobby, è spinto dalla fidanzata Lisa e da una sua amica, Ali, violentata dallo stesso Bobby, a vendicarsi dell’ex amico, uccidendolo.
Non fosse per l’estetismo a tratti esasperato, soprattutto quando si tratta di avvolgere i corpi nudi dei suoi giovani attori impegnati in ogni genere di amplesso (del resto Bijou Phillips/Ali è già diventata icona di Playboy), potremmo dire che quello di Clark è cinema iperrealista. Lo sguardo del fotografo/cineasta vorrebbe registrare gli aspetti più sconvolgenti del nuovo universo giovanile americano, dove manca il fondamento della comunicazione, perso in un linguaggio, verbale e corporeo, ricco di banalità. Anzi i corpi stessi paiono rappresentare l’unico possibile veicolo di contatto, nella reiterazione dell’atto sessuale fine a se stesso, alienante perché privo di affettività; riflesso di un’incapacità di dare profondità ai rapporti, che trova origine nel disfacimento delle relazioni che dovrebbero costituire l’asse genitori/figli.
Spostandosi tra le villette a schiera di Visalia, Los Angeles, Clark e Ed Lachmann (l’esperto fotografo di Erin Brockovich e Lontano dal paradiso, che lo affianca alla regia) identificano una realtà del tutto simile: prima del suicidio di Ken Park, Shawn va a letto con la madre della sua ragazza; Claude, figlio di un disoccupato ubriacone con la mania dei pesi e convinto dell’omosessualità del figlio, abbandona la famiglia dopo aver sorpreso il padre intento a praticargli sesso orale mentre dormiva; Peaches si rifugia nel sesso estremo, soffocata dalla rigidità un padre “perso” nelle Sacre Scritture dopo la morte della moglie e che “sposa” la figlia per mondarla dai peccati; Tate, orfano schivo e introverso, è così infastidito dalle attenzioni della nonna e dalla demenza senile del nonno, da ucciderli entrambi dopo essersi masturbato.
Niente di nuovo se pensiamo all’American Beauty di Mendes, o più indietro ai Belli e dannati di Van Sant, che figurava tra i produttori esecutivi di Kids, e fresco vincitore a Cannes con Elephant, altro film “bastardo”; pensiamo anche al cinema di Solondz, di Araki o a quel badguy del cinema indipendente che è Harmony Korine (Gummo ’97, Julien Donkey-boy ’99), guarda caso sceneggiatore dei film di Clark.
Ma se la famiglia di Mendes, ad esempio, riusciva ad essere rappresentativa di una middleclass abbruttita dalla ricerca affannosa di un riconoscimento sociale, indebolita dalla pochezza dei valori umani, c’è da chiedersi se l’aver accostato quattro storie malate, con una messa in scena ai limiti della pornografia, non abbia messo in discussione la credibilità del messaggio di Clark.
E a tal proposito va aperta una parentesi. La censura ha sempre confinato nei circuiti a luci rosse certi elementi espliciti della sessualità: il pene in erezione tanto per essere chiari. Già l’anno scorso Canicola, film bellissimo quanto disturbante, ritratto impietoso della borghesia austriaca, trovò scarsa visibilità “anche” per l’esibizione, in una delle primissime scene, di una generosa fellatio. Pensiamo anche ai quasi invisibili Baise-moi o Romance. Tanto per fare un esempio – basta saltare indietro con la memoria -, non ricordiamo erezioni in nessuno dei film di Pasolini, tanto nella trilogia della vita, né tanto meno in Salò, dove i corpi di giovani uomini e donne erano oggetto di sevizie di ogni genere.
Un giudizio su Ken Park rischia allora di essere condizionato da questo elemento/segno fortissimo. Clark, Korine e Lachmann ne sono coscienti, per cui dobbiamo chiederci perché nel prefinale (più che nel dettaglio dell’eiaculazione di Tate prima del duplice omicidio) abbia scelto di mostrare esplicitamente le meccaniche della penetrazione negli amplessi tra Shawn, Peaches e Claude. La sequenza chiude idealmente le vicende mostruose e violente raccontate in precedenza. La dimensione sessuale che prima rappresentava tutte le possibili devianze nel rapporto genitori/figli, diventa infine metafora di una ricerca di relazione pulita e goduta pienamente e liberamente. Il dubbio però, è che l’esibizione esasperata finisca per cortocircuitare la percezione di un pubblico “abituato” a classificare pornografia simili immagini, col rischio di allontanarlo dal senso del film, dopo averlo spinto ai limiti dell’eccezionalità (sconfinamenti nella patologia), con personaggi che dovrebbero funzionare come “sineddoche” nella visione (denuncia) apocalittica di Clark. Del resto il regista (che rimane sanamente moralista) dice di filmare ciò che vede: un’America barbara da costa a costa. Ergo, senza mezzi termini è necessario produrre delle immagini “sporche”, come non se ne erano viste nei film dei registi prima citati, per scioccare con coraggio – lui stesso afferma – l’America addormentata, più impegnata a rimuovere i problemi che ad affrontarli. Ne erano rappresentativi gli adulti in Bully, così “desensorializzati” da percepire i figli come mero accidente, quando addirittura come altro sconosciuto e terrificante.
In Ken Park l’interazione esiste, ma è distruttiva, non ipotizza nessun percorso di crescita. La tesi allora è dimostrare come l’impoverimento dell’ambiente domestico sia arricchito (accadeva già in Kids) dal consumo frettoloso e trasgressivo di droghe e sesso, quasi a sancire il superamento di un’infanzia priva di genitori. O meglio: priva dei genitori come dovrebbero essere, presenti nei momenti importanti, capaci di dare risposte o di guidare alla lettura della realtà, di rafforzare il ruolo della famiglia che invece, si diceva, non esiste per questi kids affamati di attenzioni vere. Il nucleo dei coetanei diviene un surrogato in cui però ogni elemento arriva “orfano”, e la costruzione dei rapporti, indispensabile alla sopravvivenza psichica (io esisto anche perché esisto per gli altri), si fonda sullo scambio carnale, che è un dare e ricevere immediato e piacevole ma, e questo è il dato inquietante, non sempre profondo o sentito come il coronamento di un sentimento amoroso. Non è casuale che Shawn chieda alla madre della sua fidanzatina, dopo l’ennesimo amplesso, se lei lo ami. Naturalmente la risposta è negativa, perché la barbie adulta usa il ragazzino come oggetto sessuale: Shawn non lo sa, ma in realtà viene violentato sistematicamente.
E se a tratti Clark pare riuscire con delle invenzioni notevoli a renderci l’abominevole mondo degli adulti (vedi il padre ubriaco di Claude, che beve birra e piscia contemporaneamente: come dire un tubo digerente con un “animale” intorno), altre volte manca di approfondimento psicologico, indispensabile risarcimento per lo spettatore che non si accontenta unicamente di spiare attraverso una videocamera a circuito chiuso, come sembra trasformarsi a volte la macchina del regista, comunque splendida tra le mani di Lechmann.
In quest’ottica è ovvio che il momento sentito dell’amore libero tra Shawn, Peaches e Claude, avrebbe avuto bisogno di un pudore diverso. E non perché siamo puritani o ci scandalizziamo di fronte a dei ragazzi che “lo fanno davvero” (la pornografia è ben altra cosa!), ma perché il significato di quell’abbraccio non ha nulla a che vedere con la sua meccanica nuda e cruda.
Alessandro Leone
(Pubblicato sul n°22 della versione cartacea, novembre 2003)