C’è una sorta di compimento inconsapevole del destino in questa ultima interpretazione postuma di Philip Seymour Hoffman, un preludio alla morte che ne è al contempo uno struggente canto del cigno, la rappresentazione su grande schermo di ciò che lo stesso attore era ormai diventato nella grandiosa piccolezza della sua vita: un fantasma. Ed è il fantasma della dipendenza a perseguitarlo nel quarto lungometraggio di Anton Corbijn, proprio come la depressione, la malinconia, lo spleen britannico di baudeleriana memoria avevano finito per uccidere il protagonista di Control (2007). Ve lo ricordate? Era un film sul controllo di chi il controllo l’ha perso, un’allegoria del suicidio come affermazione della volontà di vita. L’Hoffman de La spia è già un personaggio corbijano senza la consapevolezza di esserlo anche al di là della finzione, un uomo al capolinea, paurosamente grasso, le dita che si allungano ad arraffare tutte le cibarie a portata della propria voracità, l’alcol trangugiato a fiumi, uno scotch dopo l’altro, una sigaretta consumata dietro la successiva. Tabacco, liquori, innocenti godimenti per molti, irresistibili ossessioni per altri, compulsive reiterazioni a ripetere, divorare e consumare per altri ancora. Nessuno ci avrebbe fatto caso, in un noir spionistico tratto da John Le Carré, come nessuno avrebbe fatto caso a quegli uffici hopperiani, quei grandi spazi notturni fiocamente illuminati che diventano metafore della solitudine, della disperazione e dell’inconsapevolezza dell’autodistruzione. Stiamo parlando di un film, non della quotidianità, ma spesse volte il confine tra realtà e palcoscenico è davvero molto labile. Philip Seymour Hoffman forse non lo immaginava di essere alla frutta, o forse lo immaginava ed è per questo che, paradossalmente, ha dato il meglio di sé. La sua parte si accorda alla sua esistenza, il temperamento pacato della spia, umana ma calcolatrice, a quello che senz’altro attivava la sua mente febbricitante, consunta dagli stupefacenti e dall’oblio.
Siamo in una Amburgo simile a Milano, modernità e squallore, grattacieli e senzatetto, immigrati turchi che convivono con i cittadini “integrati”. Dal nulla appare un ragazzotto ceceno dallo sguardo stralunato, è un islamico che sulla schiena porta i segni delle torture russe: si chiama Issa (Grigoriy Dobrygin), non ha soldi, una casa né un posto dove andare. L’unico contatto è un certo Tommy Brue (Willem Dafoe), ambiguo banchiere che in virtù di una promessa d’affari stipulata tra i rispettivi padri, dovrà ratificare un lascito di svariati milioni di euro a beneficio del suo protetto. Com’è possibile che un poveraccio spuntato dal niente possa ereditare d’un tratto tutti quei soldi? Cosa nasconde il furbo banchiere dietro i suoi modi gentili? C’è forse un legame con il finanziamento del terrorismo islamico? Se lo chiedono i Servizi Segreti tedeschi, capeggiati dallo stesso Hoffman, quelli americani e l’intero governo della Germania. Se lo chiedono tutti tranne l’avvocatessa di Issa, una sciocca ecologista di sinistra, che vedendo nel suo assistito un povero apolide in cerca di asilo politico, farà di tutto per sviare le indagini e rendere il lavoro delle spie assolutamente più complicato.
Soldi, mafia russa, bieche speculazioni finanziarie e attività di foraggiamento alle frange più estremiste del mondo musulmano. In La spia ci sono tutti gli ingredienti di una spy story da manuale, appostamenti, intercettazioni, false piste e pezzi che si incastrano in un gigantesco puzzle che va dalla Cecenia a Berlino, passando per Cipro e la Turchia; ma l’abilità di Corbijn, del suo sceneggiatore Andrew Bovell e di le Carré, ex spia pure lui al soldo della corona britannica, sta tutta nello scombinare le carte del mazzo, tessere sottotrame, costruire intrighi inquietanti e subito smontarli per indirizzare gli spettatori (e gli agenti segreti) in tutt’altre direzioni. La visione delle cose che ne esce, l’immagine dell’Europa e dell’Occidente e dei rapporti tra USA e vecchio continente, non rinuncia a una sfumatura profondamente reazionaria: l’islam è comunque una religione da cui guardarsi, anche qualora gli esponenti più civilizzati del suo universo culturale predichino la legge dell’uguaglianza e della pace; mentre agli americani (qui ben rappresentati dalla sempre orrenda pettinatura di Robin Wright) si deve l’onore di un collaborazionismo tutto di facciata, dietro il quale si nascondono interessi di politica internazionale ben meglio orchestrati.
Marco Marchetti
La spia
Titolo originale: A Most Wanted Man. Regia: Anton Corbijn. Soggetto: John le Carré. Sceneggiatura: Andrew Bovell. Fotografia: Benoit Delhomme. Montaggio: Claire Simpson. Musica: Herbert Groenemeyer. Interpreti: Philip Seymour Hoffman, Robin Wright, Willem Dafoe, Rachel McAdams, Grigoriy Dobrygin. Origine: UK, USA, Germania. Anno: 2014. Durata: 121 min.