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La sala professori

Interno, giorno. Aula professori di un istituto scolastico tedesco (l’equivalente di una scuola secondaria di primo grado). Inquadratura stretta: una porzione di spazio che incornicia una sedia vuota e poco altro, la soggettiva di una webcam accesa di un portatile aperto. Non è l’incidente di un’insegnante distratta, la webcam è stata attivata di proposito mentre il pc sembra spento: è un’imboscata. Il fine dovrebbe giustificare il mezzo, laddove la privacy vieterebbe qualsiasi registrazione non autorizzata, perché nei pochi istanti filmati una mano rovista in una giacca per sottrarre pochi euro. C’è qualcuno che ha il brutto vizio di rubare nella scuola in cui insegna Carla Nowak (Leonie Benesch) e forse non sono gli studenti.
C’è poco da stare allegri in questa scuola, anche in altre probabilmente. Carla, che insegna matematica e ginnastica, guarda negli occhi i suoi alunni dopo un interrogatorio compromesso, ed è evidente, da preconcetti e malcelato razzismo: un team di docenti interroga un bambino nord Africano, colpevole di detenere denaro che si scoprirà poi essergli stato dato da un genitore. Carla ha invece uno stile maieutico, ha il classico profilo dell’insegnante cinematografico, la buona maestra che si relaziona ai suoi studenti con passione e con l’obiettivo di renderli liberi nel pensiero e forti nelle difficoltà. Da Keating (L’attimo fuggente) in poi è figura codificata. Carla guarda al mondo dei fanciulli con speranza, a quello degli adulti con riserva: ne scorge le ipocrisie, le falsità. Pesca una collega in sala insegnanti svuotare il maialino con i piccoli risparmi collettivi e per questo decide di incastrarla, di mettere a nudo la verità, o ciò che pensa sia la verità. E invece la sua webcam, la sua personale videocamera di sorveglianza, ingabbia nei suoi circuiti una segretaria che è poi madre di un suo studente.
Quando si rende conto che mostrare un’evidenza non significa mostrare una prova inconfutabile, è troppo tardi. Parte una denuncia e il racconto scavalla un punto di non ritorno. La violazione è palese, la verità si frantuma nei rivoli di un liquame viscido. In questo il film si imparenta presto ad Anatomia di una caduta, laddove l’iter processuale, che non dirada le ombre ma semmai le infittisce, è qui sostituito dalla moltiplicazione dei punti di vista sul presunto furto, sulle modalità della denuncia, sulla validità della prova raccolta, sulla parzialità dei giudici (i colleghi di Carla, i genitori, gli alunni).

Lungo le direttrici dello school movie il regista Ilker Çatak, vera sorpresa di stagione, tanto da meritare il tavolo dei grandi al gala degli Oscar 2024, deraglia subito dal binario sicuro dell’ennesimo racconto di un’insegnante illuminata che dirige un’orchestra di solisti stonati (Hilary Swank che cresce i suoi Freedom Writers), per scegliere le distorsioni di una scuola che annaspa tra tolleranza zero e aperture verso una pedagogia dell’ascolto, tra l’applicazione di principi etici e la perdita di una condotta morale inequivocabile. Riaffiora La classe di Cantet, a tratti rievoca Class Enemy dello sloveno Rok Bicek. La scuola si fa metafora, o meglio, specchio della società, luogo concentrazionario da cui non uscire mai per raccontare il disorientamento che ci investe tutti al cospetto di una realtà che non è più così chiara. La brava maestra diventa d’un tratto equivoca e dunque peggio dei cattivi maestri, di quelli che se ne fregano delle relazioni, che non liberano le menti ma preferiscono subordinarle a un ordine di comodo.
Se anche la scuola, luogo germinativo per eccellenza e spazio di formazione di futuri individui/cittadini, non è baluardo di onestà e verità, allora è la fine del mondo. Ed è sicuramente la fine del piccolo mondo di Oskar, figlio della presunta colpevole di furto, che non capisce come mai la madre sia stata allontanata dal suo posto di lavoro se nessuno può accusarla con certezza (affine in questo al bimbo cieco protagonista nel finale del su citato film di Justine Triet); e nemmeno comprende come la denuncia possa arrivare dalla sua signora Keating, la maestra rassicurante che adesso ha perso la fiducia dell’intera classe. E se non è la fine del mondo per Carla, sola tra i fuochi incrociati di certi colleghi, di molti genitori, di tutti gli alunni, che arriveranno a manipolare una sua intervista per il giornalino scolastico (perché i veri insegnamenti passano attraverso l’osservazione del mondo adulto!), è solo perché la forza caratteriale coincide con la certezza di essere nel giusto, almeno di fronte ai suoi alunni, ovvero di aver commesso un errore nella ricerca di una verità che rischiava di confondersi con una menzogna. Infine rischia di essere la fine del mondo-scuola, che da sempre si interroga (o tenta di farlo) sul senso della relazione educativa, sulla responsabilità individuale e l’onestà intellettuale, sul fallimento come possibilità di crescita, e, ancor prima, sulla qualità di uno spazio culturale che possa permettere a ogni individuo di diventare cittadino.

Alessandro Leone

La sala professori

Regia: Ilker Çatak. Sceneggiatura: Ilker Çatak, Johannes Duncker. Fotografia: Judith Kaufmann. Montaggio: Gesa Jäger. Musiche: Marvin Miller. Interpreti: Leonie Benesch, Leonard Stettnisch, Eva Löbau, Michael Klammer, Anne-Kathrin Gummich, Kathrin Wehlisch. Origine: Germania, 2023. Durata: 98′.

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